Shine – Scott Hicks [1996]
Film d’amore e d’anarchia
È un buon modo di presentare al cinema una biografia: spezzare la linearità del racconto, non frammentandolo esageratamente.
Il regista Scott Hicks mantiene in questo modo un equilibrio precariamente stabile che riflette alla perfezione lo spirito del protagonista.
David Helfgott è un pianista. Utilizzo il presente, perché è ancora in vita, ed è ancora un pianista. Gira per il mondo, si esibisce, riceve applausi, torna a casa sua in Australia, e poi ricomincia. Insomma, ora ha una vita abbastanza tranquilla, che non riserva più strepitose sorprese. Eppure prima di ciò visse una vita travagliata, tormentata. Il padre, è sempre stato lui il suo vero cruccio. Il padre lo obbligava a suonare, lo obbligava a fare questo e a non fare quello, gli instillava la paura di non essere considerato, insomma, lo obbligava a essere un vincente. E così il nostro David crebbe, con uno spirito strabordante soffocato tra gli attacchi d’ansia che il padre costantemente gli rinvigoriva, tanto per non rischiare di perderlo per strada e, chissà, magari permettergli di seguire la propria vita lontano da lui, perché no specializzando la sua mirabolante tecnica in qualche scuola statunitense o britannica che avrebbe potuto offrire prestigiose borse di studio a un giovane fenomeno del pianoforte.
Questa figura del padre autoritario totalitarista intra-famigliare sfociò in David generando complessi e complessità psico-fisiche che meriterebbero approfondimenti mirati. Sicuramente possiamo però affermare che il fallimento del padre stesso in veste di musicista, a sua volta strangolato dalla rigidità del proprio padre, scatenò una sorta di repressione che non tardò a riversarsi su quella versione che il padre di David vedeva come una sottospecie di sua stessa miniatura, plasmabile a seconda delle sue necessità. Non solo fu il padre, autodidatta, che insegnò il pianoforte a David, ma addirittura gli suggeriva le risposte da dare agli estranei.
Insomma, il nostro giovane pianista, non superò mai questo trauma.
Finì molte volte in ospedali psichiatrici, fino a quando in seguito a un impegnativo concerto [fulcro del film] gli venne addirittura impedito di suonare nuovamente il piano.
Ed è qui che emerge il genio: a distanza di anni di silenzio, quando David ha quasi perso l’utilizzo assennato della parola ma torna per puro caso a rimettere le mani su di un pianoforte, sa ancora domare quell’infinita serie di tasti bianchi e neri che celano, criptici, le più appassionate melodie dietro a quella superficiale atonalità bicromica. Non solo David sa ancora suonare magistralmente lo strumento, ma addirittura lo fa togliendosi gli occhiali prima d’iniziare l’esecuzione, non leggendo dunque le note sullo spartito ma lasciando ch’esse fluiscano abbracciate l’un l’altra dal cuore direttamente sul pianoforte, escludendo dunque quel passaggio mentale, per certi versi meccanico, che la lettura dello spartito produce.
È il terzo Concerto per pianoforte e orchestra di Sergej Vasil’evič Rachmaninov, composto nel 1909, a costituire la passione e il tormento di David. È suonando questo impegnativo brano che crolla e che risorge. È questa la composizione che il padre voleva imporgli d’imparare sin da bambino.
Il protagonista fatica a parlare, fatica a muoversi eppure suona come pochi altri al mondo sanno fare. È il suo trasporto emotivo che colpisce e ammalia. È la poesia che trasuda dalla sua incomprensibilità che calamita gli animi di chi ha il privilegio di poter assistere alla danza che le sue dita compiono sui quei tanto amati tasti.
La musica non è per lui passione, non è obbligo bensì è necessità, insostituibile cura all’a-sintonia con ciò che lo circonda.
Una storia così commovente e appassionante non poteva che essere rappresentata con uno stile registico altrettanto intenso. Scott Hicks non è regista funambolico, non è da lui che ci si deve aspettare macchine da presa iperattive e viraggi cromatici aciduli. Hicks narra con estremo trasporto, ed è molto più importante in casi come questo. Segue le vicende con cognizione di causa e muta leggermente ritmi e prospettive senza disorientare lo spettatore ma accompagnandolo emozionalmente quasi calamitandolo da sotto la superficie. Lo spettatore entra nell’opera senza che lui sappia come sia potuto accadere.
Le musiche, straordinarie, si prendono a gran forza buona parte dell’attenzione dello spettatore, sin dagli inizi, quando uno sconosciuto bambino di nome David Helfgott si presenta a un’audizione performando una perfettissima polonaise ‘eroica’ di Chopin, mentre il pianoforte che non era stato fissato al pavimento si allontana su delle incerte rotelle che sembrerebbero voler cedere da un momento all’altro sotto il peso della pianoforte, della musica. E poi altre composizioni di classica brevemente accennate come Schumann e Beethoven, in aggiunta a brani originali di David Hirschfelder, ma è il cosiddetto Rach 3 a calamitare l’attenzione del protagonista e dello spettatore. Tutta la prima parte del film è strutturata con continui rimandi a quel brano cosicché quando verrà finalmente suonato il climax sarà raggiunto, lo spettatore pienamente coinvolto e non solo narrativamente, e il film può cambiare la sua rotta. Questa scena apicale, precisissimo spartiacque tra prima e seconda parte del film, è un momento memorabile della storia del cinema contemporaneo.
Se la regia è più che valida e le musiche eccellono, con quale bravura avrebbero dovuto recitare gli attori per esserne all’altezza? Fortunatamente, gli attori non deludono e, anzi, costituiscono proprio uno dei punti di forza del film.
Il David Helfgott adolescente è interpretato da un ottimo Noah Taylor e già non ci sarebbe da lamentarsi, ma come non ammirare la meravigliosa prova attoriale dell’intransigente padre interpretato dall’esperto Armin Mueller-Stahl? Lodato da pubblico e critica fu però più d’ogni altro Geoffrey Rush, ovvero l’adulto David Helfgott. Credibile ed emozionante vinse l’unica statuetta che questo film si aggiudicò ai premi Oscar nel 1997 e seppure i riconoscimenti di questo tipo non sono altro che onanistiche celebrazioni che il sistema cinematografico fa a sé stesso, in questo caso ha il merito d’evidenziare la portata dell’interpretazione di Rush.
Shine è un bellissimo film. Forse non tutto è perfetto, forse la storia è in certi punti un po’ troppo romanzata, forse qualche parola in meno [della buona sceneggiatura] avrebbe giovato maggiormente a rendere lo spirito più che le vicende del protagonista, ma non importa. Shine è opera appassionata e appassionante, sensibile e delicata. È un piacere guardarla.
Danilo Cardone
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