Man On Wire – James Marsh [2008]
L’insostenibile leggerezza dell’essere
«Per me è davvero molto semplice: la vita deve essere vissuta all’estremo, sempre sul filo. Bisogna esercitarsi alla ribellione, rifiutare di adeguarsi alle regole, rifiutare il proprio successo, rifiutare di ripetersi, e vedere ogni giorno, ogni anno, ogni idea, come una nuova sfida. Solo così si vivrà sempre su una corda tesa.»
Con queste parole Philippe Petit conclude Man On Wire, il documentario pluripremiato che racconta la sua vita.
In realtà la narrazione ruota tutta intorno a un solo episodio, a una sola grande, immensa, sfida: l’attraversamento a piedi dello spazio vuoto che separava le torri gemelle di New York.
Su di un filo metallico, spesso un paio di dita, teso da un palazzo all’altro, Philippe Petit ha attraversato luoghi impensabili, dallo spazio tra le due torri della facciata di Notre Dame a Parigi sino alle cascate del Niagara. Eppure l’impresa più ardua, quella in assoluto più sconcertante, è stata il raggiungimento da un edificio all’altro delle Twin Towers. Quasi 80 metri di spazio a 500 metri d’altezza. Senza imbragature o corde di salvataggio. Un passo falso o una folata di vento e tutto sarebbe finito lì per Philippe.
E invece non fu così e lui stette per ben 45 minuti sospeso nel vuoto a camminare, a sdraiarsi e a inginocchiarsi con una naturalezza incredibile su quel minuscolo filo.
Tutto ciò nell’illegalità più assoluta! Chi avrebbe mai permesso che un uomo potesse rischiare così la vita dando tale spettacolo ai passanti?
Quando lo arrestarono al termine di quella sua incredibile prova, la prima domanda che la polizia gli porse fu «perché?». Come è lo stesso Petit a evidenziare, di quella magnifica impresa incomprensibile, ammaliante e allo stesso tempo terrificante, i poliziotti newyorkesi non si dimostrarono interessati ad altro che a un banalissimo perché da inserire nel modulo che stavano compilando.
I poliziotti non si resero conto di che cosa fosse appena successo di fronte ai loro occhi. La follia di quell’uomo francese dai capelli rossi non era stata altro che una necessità derivante dall’inconscio, il frutto d’un impulso durato anni e anni che non aveva altro senso se non quello intrinsecamente rinchiuso nel suo essere azione, gesto, omaggio. Omaggio a tutto ciò che esiste, a sé medesimo. Quell’atto inspiegabile è stato uno dei più alti momenti di poesia autentica che la società contemporanea è stata in grado di produrre, ovvero l’esternazione e il compimento di un sentire altro che ha portato il soggetto fuori dalle regole, dagli schemi, per poter essere ciò che veramente era. Nessuna mediazione della ragione, nessuna morale, nessun significato recondito da manifestare, nessuna protesta, niente di niente. Essere per essere. Non dare spettacolo per intrattenere, cosa che Petit ora fa per diletto, bensì fare spettacolo per ri-trovare sé nel Tutto, e viceversa. L’azione visivamente di carattere circense è stata atto sacrale, di devozione e di completo controllo e donazione.
Philippe Petit è stato un rivoluzionario, ma ancor prima un coraggiosissimo ribelle che ha perpetrato la più pacifica delle ribellioni, toccando nel profondo migliaia e migliaia di persone soltanto dimostrando di essere.
Quale arma può battere una tale comportamento, tale radicalità di coscienza?
A livello filmico, di fronte a quest’impresa, si possono lasciare passare molti difetti. Certamente avremmo gradito maggiormente un film più affidato al potere evocativo dell’immagine e del silenzio, ma in fondo è il messaggio che conta in certi casi. Tanto meglio, dunque, notare come il regista abbia saputo ben inscenare il tutto con delicatezza, mescolando senza arroganza immagini di repertorio a scene appositamente ricreate ex novo per narrare alcuni passaggi che non poterono essere filmati. Apprezzabile notare anche come lo spazio dedicato alla storia d’amore tra Philippe Petit e la sua ragazza che all’epoca lo sostenne nell’impresa non è preponderante ma anzi s’integra perfettamente nel discorso artistico di ciò che stava succedendo. Anche il rapporto di amicizia è indagato con rapidità, con una utile fugacità che sà rallentare solamente nel finale per soffermarsi significatamente sulla conclusione dell’intero discorso relativo a Petit. L’impostazione classica del documentario moderno non viene così stravolta, eppure tra split screen e dolci musiche d’un timido pianoforte i minuti passano senza fatica alcuna.
Man On Wire è un bel film che può vantare d’aver vinto il premio Oscar come miglior documentario, eppure non è questo che ci interessa. Man On Wire è portatore d’un messaggio forte e chiaro che vale la pena di osservare e comprendere.
Danilo Cardone
Ottimo il messaggio che vuole trasmettere Philippe Petit, condivisibile.
Aggiunto alla mia lista dei film da vedere prossimamente 🙂
E’ un messaggio veicolato in modo particolare, eppure proprio per questo ancora più attraente, misterioso, estremamente affascinante..