Luna Di Fiele – Roman Polanski [1992]
Il fascino discreto della perversa borghesia
Su una nave da crociera una coppia sposata da sette anni troverà [finalmente] la propria vera natura…
Roman Polanski torna quattro anni dopo Frantic a filmare quella che sarebbe divenuta sua moglie Emmanuelle Seigner e lo fa non con la ligia direzione del thriller hitchcockiano interpretato a metà con Harrison Ford, bensì con la bestiale crudeltà [anche ma non solo] psicologica che contraddistinguerà il suo film successivo La Morte E La Fanciulla. Un Polanski fedele al suo stile, dunque, ma che per una volta abbandona la circolarità tipica dei suoi più grandi lavori per lasciare spazio al folle divenire degli eventi.
La natura umana, è questo che indaga in questo suo film appassionato, cruento, tagliente, illusorio e tragicomicamente amaro.
Da forti noti autobiografiche sviluppa una storia spiraliforme che dapprima esalta i due personaggi protagonisti dei racconti, per poi parimenti affossarne uno per idolatrare l’altro e viceversa in perversi giochi di potere e possesso che sfociano senza troppe perifrasi nel cuore del sadismo più puro, cosparso di giochi di ruolo e violenza fisica e psicologica.
È il sesso il centro focalizzante le voglie represse del giovane malcapitato, costretto ad ascoltare i racconti di un vecchio storpio. Ciò che il giovane non osa per pudore per restrizioni di buon gusto imposte dalla società non è altro che ciò che dentro l’avvampa. E la forza ch’entro reprime non è altro che la crudeltà, ovvero, per dirla con de Sade, «l’energia dell’uomo non ancora corrotta dalla civiltà». Ne deriva un contrasto interiore che contrappone mente e sentire, volontà e dovere che si avvinghiano come un nodo alla gola intorno al protagonista mosso solamente più dall’illusione di una ricompensa, da un ologramma paventato con abilità per creare in lui un’aspettativa fittizia. È il crudele gioco dell’inganno, del possesso dell’altro. Tutti ci cascano prima o poi.
Polanski, da buon burattinaio, si arroga il diritto di giudicare, di seminare la discordia nei personaggi e negli spettatori, come chi sa cosa è giusto e cosa non lo è, non differenziando le due nature ma fondendole in un unicum di letale attrattività.
Vittima designata è un ingenuo e pacato Hugh Grant, sottomesso da un sadico all’estremo Peter Coyote. La regina della scena resta comunque, per tutta la durata della pellicola, la Seigner, vera e propria femme fatale per la quale il regista pare aver creato un’interminabile ode dalle sfumature preraffaellitiche, dove l’amore platonico e inarrivabile per la donna, che è di derivazione dagli ideali immaginifici di Dante e di Petrarca, si mescola indissolubilmente con la voluttà della carne alla quale l’uomo non può sfuggire.
Evoluzione e involuzione delle parti si sovrappongo, si scambiano, sempre e comunque con la Seigner, nuda e cruda, sulla scena, appositamente apposta per stregare l’uno e poi l’altro. Polanski, con ben più fervore di come farà sette anni dopo ne La Nona Porta, trasforma sua moglie in una nuova Lilith, la figura prebiblica ebraica che identifica colei che fu la prima sposa di Adamo, cacciata dal Paradiso Terrestre perché ribellatasi alla sottomissione alla figura dell’uomo. Da qui Lilith scompare dai racconti fino a ricomparire come regina degli Inferi, donna demonicamente fatale pienamente padrona del proprio essere femminea.
Nel film è lo stesso protagonista, marito del personaggio interpretato dalla Seigner, a paragonarsi ad Adamo, dunque a essere prima il dominatore e poi il sottomesso, come in effetti sarà, della pericolosa Lilith.
Ecco dunque che si plasma una figura contrastata e contrastante, che prima domina perversamente e poi subisce altrettanto perversamente, sempre sotto l’egida d’un piacere estremo, che solo in questo suo carattere esagerato può rivelarsi veramente autentico.
Il finale si riverserà tutto sulla coppia composta da Hugh Grant e sua moglie, finallora lasciata in secondo piano rispetto ai racconti del vecchio paralizzato.
La prima parte del film invece è un florilegio di citazioni che Polanski fa al cinema, alla città. È Parigi la ville destinataria delle lodi del regista polacco d’origine ma francese d’adozione. Parigi, proprio come i registi della nouvelle vague erano soliti esaltare. Truffaut, Godard, Rohmer, ovvero artisti con i quali Polanski instaurò scambi registici evidenti.
Se Truffaut aveva dichiarato d’aver preso spunto [criptico ma riconoscibile] da L’Inquilino Del Terzo Piano proprio di Polanski per girare il suo capolavoro L’Uomo Che Amava Le Donne, è evidente come Polanski in questo film citi espressamente l’appena nominato film di Truffaut. Il personaggio interpretato da Peter Coyote è quasi una nuova versione del celeberrimo Bertrand interpretato da Charles Denner. È uno scrittore, la versione dei fatti fruita dallo spettatore è esclusivamente quella raccontata, dunque sicuramente mediata, dalla fantasia di chi è abile innanzitutto con le parole. Anche questo personaggio conquista donne con la facilità con la quale respira, e lo fa in ogni luogo e in ogni momento, e per questo arriverà a sacrificare letteralmente sé stesso. Se però Truffaut manteneva una certa dignità poetica, Polanski è un feticista convinto, che non esita a inquadrare piedi, a denudare sua moglie e a raccontare e, fin dove possibile, mostrare scene erotiche che qui è meglio non riportare.
L’ambientazione in una Parigi anacronistica, ancora pienamente romantica nello spirito, è descritta con una passione che per certi versi richiama il Godard di A Bout De Souffle mentre per altri richiama Due O Tre Cose Che So Di Lei, dove lei è la città, la morale e, da non dimenticare, la protagonista. Qui la lei è ovviamente la medesima Emmanuelle Seigner che era stata scoperta [in tutti i sensi] nel 1985 proprio dal maestro Jean-Luc Godard nel suo Detective.
Insomma, Polanski cita e ri-cita mai deformando il suo stile, anzi, esaltandolo grazie a questi riferimenti. La sua regia è perfetta e come sempre asseconda simpateticamente il protagonista. Un esempio su tutti può essere riscontrato dagli stretti corridoi o dagli affollati saloni nei quali lo stordito Hugh Grant si trova sempre a dover affrontare delicate situazioni, tra l’asfissiante freddezza dei muri della nave e tra chiassosi balli per i quali lui si sente [perché in effetti lo è] particolarmente negato.
Luna Di Fiele, a dispetto del titolo che può lasciar presagire una superficialissima commedia, è un film duro, appassionato e al contempo cattivo, accomodante nel suo elogio alla vendetta, alla ritorsione gratuita, al sopruso. Bello.
Danilo Cardone
Gran bel film…l’alchimia tra Coyote e la Seigner ne aumenta il valore…Hugh Grant fa quello che gli riesce meglio, cioè staro sullo sfobdo narrativo ed essere bistrattato…;)