My Son, My Son, What Have Ye Done – Werner Herzog [2009]
Werner, Werner, what have ye done
Tratto dalla reale vicenda di Mark Yavorsky, questo film vede alla regia Werner Herzog e alla produzione David Lynch.
Non solo nomi gettati sulla carta, bensì presenze cinematografiche presenti e riconoscibili come note su un pentagramma, ognuna con una sua valenza ben precisa e caratterizzante.
D’altronde la musica in questo film non è mai secondaria definendo incostanti atmosfere d’incostanti equilibri mentali con ritmiche ricorsive e più sincopate che fluide con sfumature e [non]melodie che possono richiamare alla mente alcune tra le centinaia di composizioni di un altro espressionista folle come John Zorn. Proprio lui, genio irregolare che ha saputo creare momenti musicali di una raffinatezza straripante e per contro altri di una rozzezza squisitamente filosofica. Herzog e Lynch sono come Zorn, in questo film, ma nei suoi progetti meno riusciti. Gli stilemi classici delle due poetiche sono messi in campo ma in maniera troppo poco autentica, quasi a dover dimostrare qualcosa che non viene dimostrato.
La metafora del mito che avvolge la follia del protagonista non convince, probabilmente anche grazie alla complicità d’una sceneggiatura debole, non incisiva come avrebbe potuto e forse dovuto essere. L’alienazione del protagonista è evidente sin dalle prime scene ma non per questo ne possiamo comprendere le ragioni che con troppa faciloneria potremmo attribuire a una conseguenza d’una società sempre più estraniante. La madre opprimente non basta, perlomeno nel tempo filmico e nel modo rappresentato, a giustificare quanto accaduto e perciò il personaggio emerge come folle per inclinazione, per una sua natura inconoscibile e non legata squisitamente a episodi della sua quotidianità. Da ciò si giunge a un dramma che poco interessa lo spettatore e che mal sostiene eventuali metafore altre, che raggiungono il loro apice più basso nella scontatissima e mal inscenata rappresentazione teatrale.
Ogni episodio sembra distante dagli altri, dal viaggio-rivelazione in Perù, al rapporto con la ragazza, agli struzzi. Qui forse, però, risiede uno degli aspetti più interessanti del film che non si concentra quasi per nulla sulla situazione presente, ovvero il folle asserragliato nella casa-rifugio nella quale lo spettatore non può mai curiosare, bensì si affida a conviviali racconti dei personaggi al protagonista vicini. La narrazione vive così su una scala non troppo estesa di tempi passati che si consequenzializzano per creare un mosaico parziale della deviata mente del pazzo. Pazzia che si articola su un bilico molto cauto, ovvero che non riesce a giustificare sé stessa né a condannarsi, dunque non coinvolgendoci nella questione.
A livello prettamente registico la fotografia non convince più di tanto, discostandosi dalla fredda perfezione de Il Cattivo Tenente, film dello stesso anno di Herzog, e non avvicinandosi a un’accoratezza più entusiasmante in quanto non fa che ancorarsi a un manierismo sterile e superfluo. Ovviamente non è tutto da buttare, anzi, tutto è fatto con cognizione di causa, soltanto in un verso poco interessante.
Molti gli attori famosi, a dir la verità tutti un po’ sprecati. Udo Kier, Willem Dafoe, Chloë Sevigny e anche Michael Shannon che con quello sguardo che accattiva già nella locandina poteva giungere a un’interpretazione memorabile e invece ristagna sempre nel suo brodo, di quando in quando guardando dritto in macchina.
My Son, My Son, What Have Ye Done è un film che non convince, che annoia sul fronte narrativo e, malgrado l’attenzione profusa, non incanta da un punto di vista visivo. Che dire, Herzog è ben altri film e oggi forse conviene apprezzarlo per i suoi lavori documentaristici soprassedendo un poco su questi esercizi.
Danilo Cardone