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Barry Lyndon – Stanley Kubrick [1975]

10 dicembre 2012

Edle Einfalt und stille Größe

Barry Lyndon

Tre ore e quattro minuti che trascorrono in un solo respiro.

Quando uscì nel 1975 fu un clamoroso insuccesso al botteghino. Più di dieci milioni di dollari spesi per la realizzazione di questo film che spaventò il pubblico per la durata e che la critica non riuscì a catalogare. D’altronde, sulla carta si presentava con un Kubrick anomalo. Reduce dai successi fantascientifici di 2001: Odissea Nello Spazio e di Arancia Meccanica, presentando un film a soggetto storico non riuscì a calamitare l’attenzione su un progetto che, nella realtà dei fatti, si dimostra tuttora come la più grande lezione di cinema impartita da Kubrick, escludendo il meta-film del 1968, il già citato 2001: Odissea Nello Spazio.

Diradata nella lunghezza della pellicola troviamo tutta la poetica del maestro statunitense, riscontriamo tutta la sua filosofia e tutta la sua critica alla società, intesa come insieme verticalmente organizzato di uomini. Al contempo, ecco che emerge l’amore filantropico per l’essere umano, eterno adolescente incapace d’imparare dai propri errori. Prima di giungere a essere l’oltre-uomo rappresentato sette anni prima deve esaurire in toto la dannosa ingenuità della sua vita da essere umano.

È sempre Nietzsche il riferimento che sottostà allo strato narrativo più superficiale, quello storico. Come il filosofo tedesco teorizzava nel 1888 ne L’Anticristo, «i deboli e i malriusciti devono perire» in ordine al primo principio della sua personale filantropia che non va a penalizzare gl’indifesi da un punto di vista fisico né i menomati, bensì coloro che non hanno l’animo e la coscienza per elevare il proprio status, non nella società bensì nell’evoluzione della vita.  Questa fondamentale misantropia pare stridere con la definizione di filantropia, mentre a un’analisi più approfondita emerge come l’unico modo per salvare l’essere umano da un’altrimenti inevitabile autodistruzione morale.

Barry Lyndon

Kubrick dimostra di conoscere molto bene tutto ciò e lo evidenzia con estrema finezza in questo film, dove nel lungo e sofferto duello finale non inscena che quanto appena descritto. Il debole, il viscido ovvero il malriuscito, che non è altri se non Lord Bullingdon, colui che aveva sfruttato il fratellino fino a indurlo alla morte per scatenare una guerra contro il padre acquisito ovvero Barry Lyndon, sarebbe dovuto perire. Barry Lyndon, proprio lui, il protagonista, il padre, il marito della vedova, è lo sfidante a duello e ha l’occasione di colpire a morte Lord Bullingdon, che, per regolamento in quel momento, non può fare altro che subire il colpo mortale. Invece Barry Lyndon lo risparmia, in nome d’un galateo fittizio fatto d’usanze e di buone maniere che risparmia il viscido avversario, come se dovesse dimostrare ancora una volta, dopo le molte altre, d’essere qualcuno, come per legittimare la propria precaria posizione di buon aristocratico nell’élite regale inglese. Barry Lyndon si tappa le orecchie e rifiuta, ante litteram, l’insegnamento nietzschiano. Risparmia il debole e per questo ne pagherà le conseguenze.

L’uno combatte la sincera ipocrisia con l’infida e bugiarda sincerità, mentre l’altro fa l’esatto opposto in un turbine di recitazione che allontana l’uomo dalla sua essenza, dal suo essere libero.

E pensare che prima di questo finale duello d’antologia, dove l’epica è sostituita dalla ben poco onorevole ambientazione bucolica d’una stalla che ha la medesima sacralità d’una chiesa sconsacrata, Barry Lyndon aveva passato molte avventure.

Come il migliore dei peggiori aveva iniziato il suo percorso di maturazione con un duello. Per una ragazza, non troppo casta, che per di più era sua cugina, Barry Lyndon, all’epoca solamente Redmond Barry, sfida un ufficiale della legione inglese. Irriverente, mosso dal più puro spirito romantico, che da una mano ghermisce l’ardore della rivoluzione e dall’altro la stupidità dell’atto che ne deriva, il nostro protagonista si pone nell’incomoda posizione di dover fuggire in solitaria verso il proprio incerto destino. La fortuna, o che la si chiami come si voglia, s’intromette ben presto, già pochi passi dopo l’avvio del proprio cammino. Da qui, una serie incredibile di logiche vicende costella l’animata ed errabonda vita di quello che partì come un ingenuo ragazzo delle campagne per giungere a essere l’ingenuo signore d’un’importante casata. La stoltezza è quella e non la si può cambiare. L’esperienze segnano il proprio percorso ma l’indole arrivista offusca la morale dell’uomo.

Barry Lyndon

Kubrick prende il testo di Wiliam Makepeace Thackeray e lo rivisita secondo il proprio sentire. Dalla satira nei confronti della società tardosecentesca, ragionevolmente evoluta in quell’arrogante élite illuminista che genererà Luigi XIV e altri simili fino alla Rivoluzione francese del 1789, Kubrick porta l’attenzione sul personaggio, quasi con un’operazione ottocentesca che alla visione d’insieme preferisce focalizzarsi sull’eroicismo del singolo. Non per questo viene però esclusa l’ironia di Thackeray. Dalla comica goffaggine che attanaglia chi circonda Barry Lyndon, evidenziando l’ingenuità del nostro, si passa a un’amara visione dei personaggi che ruotano intorno a Lyndon e che lo plasmano ora in quella errata direzione, ora in quest’altra, quasi Kubrick condannasse continuamente l’uomo assolvendolo ogni volta.

La zuffa tra il protagonista e il figliastro che lo ha appena deriso interrompendo un concerto davanti a un’aristocratica platea è indice di quanto appena detto. La drammaticità che dovrebbe sprigionarsi dalla scena assume del grottesco, dell’irriverente irrisione dal momento in cui a dividere i due moralmente sgarbati elementi in causa si precipitano una serie di vegliardi che per la foga d’intervenire senza troppo esporsi scivolano sul lucido parquet di legno con le loro lustratissime scarpette. In dieci o forse più, per fermarne uno solo. La società della spregevole ipocrisia morale è tutta qui.

E che dire del reverendo di casa Lyndon? Pacato e apparentemente distaccato e asservente Dio, ciondola come una banderuola al vento che spira verso il potente. Il suo fedele compito di servitore non desta preoccupazioni fino a quando il suo posto di lavoro e il suo prestigio sociale vengono messi in discussione dalla nuova padrone di casa, la madre di Barry. Qui si altera e scopre la sua vera natura. A Kubrick, con infinita eleganza, basta un sorriso per criticare ferocemente l’intera categoria ecclesiastica. Il sorriso è quello del reverendo che in barba a un uomo che ha perso una gamba, e per poco la vita, a un ragazzo che ha corrotto nel più profondo la propria anima, a una bambino morto per giochi di potere, nonché a una donna impazzita, non fa altro che sorridere sommessamente, gioioso per non aver perso il suo status nell’élite.

Barry Lyndon

Tornando a prestare attenzione alla sola figura di Barry Lyndon è impossibile non notare come fortuna e sfortuna del nostro ingenuo personaggio ricalchino molto fedelmente quanto coraggiosamente descritto da William Hogarth nelle sue otto tele dipinte tra il 1733 e il 1735 nella cosiddetta Carriera Del Libertino. Ciclo pittorico che ebbe negli anni ’40 del Settecento una notevole fortuna anche grazie alle incisioni diffuse tramite la stampa, soprattutto dei periodici, raccontava il cattivo agire di un personaggio votato all’arrivistica amoralità finalizzata al raggiungimento d’un traguardo societario, tutto incentrato sull’apparenza e sui vizi.

Così è Barry Lyndon. Da ambizioso ragazzo di campagna si trasforma in avido sperperatore di fortune altrui, tra ricevimenti sontuosi, raffinati [e costosi] acquisti anche in quell’ambito artistico del quale nulla sapeva, e al gioco d’azzardo, appreso anni prima in un fortuito apprendistato avviato per sfuggire alle armi, per le quali i numerosi riconoscimenti conferitigli non facevano che ingabbiarlo sempre più in una carriera fatta di privazione e disciplina.

Hogarth è un tale riferimento per Kubrick che diventa addirittura il modello iconografico sia per i costumi, sia per gli ambienti d’aristocratici interni, sia per alcune scene. La rozzezza derisoria dello stile tipico di Hogarth è mutata nella compassata e limpidissima fotografia kubrickiana che più si rifà, anche luministicamente, a un pittore come Joseph Wright of Derby, ma ciò che sta alla base non è differente.

Barry Lyndon

I riferimenti iconografici all’arte dipinta non finiscono qui, anzi, sono innumerevoli e andrebbero approfonditi con uno studio a sé stante. In questa sede credo sia sufficiente citare a titolo esemplificativo, oltre ai già nominati, l’importanza dei ritratti di due inglesi purosangue come Thomas Gainsborough e Sir Joshua Reynolds che prima d’essere il primo fautore del recupero dei riferimenti letterari del passato per la pittura moderna, divenne straordinario ritrattista dell’aristocrazia d’oltremanica. John Constable è invece uno dei riferimenti per i paesaggi dominati dalle verzure dei campi e dei boschi, così come per le vedute sulle tenute e sui ruderi di bastioni militari immersi in parchi dominati da alberi e ruscelli d’acqua. Come non notare, inoltre, di quando, dopo la nutrita fase narrante le vicissitudini guerriere di Barry Lyndon, la macchina da presa immortala una veduta di una città prussiana con la sensibilità documentaristica d’un Canaletto o, ancor meglio, d’un Bernardo Bellotto? E ancora, l’inglesissimo George Stubbs pare il riferimento per le scene con i cavalli, soprattutto quella dell’acquisto del puledro per il giovane figlio.

Un discorso a sé meriterebbe anche Lady Lyndon, forse il più anacronistico dei personaggi. Presentata come bella e giovane moglie del vecchio e decrepito Sir Charles Lyndon, grazie alla sua maschera dietro alla maschera [di trucco, di buone maniere] diviene testimone silente del graduale decadimento dell’intera società. Dalle frivole amenità sbocciate tra il fertile terreno delle carte da gioco, Lady Lyndon crolla, inesorabile, trasmutandosi da meravigliosa opera architettonica a insignificante capriccio architettonico, dimenticata rovina simbolo d’una florida ma distante epoca passata. La sua follia è l’apice, è il sintomo dell’impossibilità d’uscire illesi dall’amoralità perpetrata finallora. Da musa ipotetica di Sir Joshua Reynolds, Lady Lyndon, si fa anticipatrice d’un decadentismo ante litteram. Gli occhi segnati, i capelli sempre più disordinati e lo sguardo perso in un vuoto interiore: la sua figura diviene sempre più tardottocentesca, simbolo d’una sensuale e voluttuosa disperazione impossibile da placare.

Barry Lyndon

Così Kubrick scavalla, anche figurativamente, dal XVIII al XIX secolo. Le numerose vedute sulla tenuta e sul palazzo dei Lyndon appaiono come semplici paesaggismi privi di valenza distinta, eppure è la luce a mutare, a garantire un’interpretazione sempre differente del luogo. Con la rapidità luministica del Jean-Baptiste-Camille Corot che dipinge en plein-air l’anticheggiante skyline romano, per non scomodare le magnifiche [ma più tarde] variazioni sul tema della Cathédrale de Rouen analiticamente pennellate da Claude Monet, Kubrick riprende le variazioni di luce, dal pieno sole degli inizi delle vicende al crepuscolarismo che identifica l’ultima parte della pellicola.

D’altronde Barry Lyndon è il film in cui Stanley Kubrick presta più attenzione all’illuminazione. Tutta la luce che irraggia le scene è sempre è solo derivante da fonti di luce naturale. Nessuna lampada elettrica, nessun faretto, niente di niente. Un prodigio senza pari, soprattutto per l’epoca, tanto da portare i cospirazionisti a teorizzare a riguardo di un Kubrick regista del celebre sbarco dell’uomo sulla Luna, e che ottenne in cambio direttamente dalla NASA gli obiettivi e le pellicole ad altissima sensibilità proprio adatte a poter girare in ogni condizione luministica sempre e comunque con luce naturale.

Non immischiandoci in discorsi annosi e un po’ indipanabili, possiamo limitarci a evidenziare la straordinaria bellezza dell’immagine. Una fotografia commovente costantemente irradiata dalla luce solare, persino nel bel mezzo di un bosco, e dalla calda e flebile luce di candele. I volti e gli ambienti, in quest’ultimo caso, assumono viraggi giallognoli e aranciati in favore d’un realismo e d’un naturalismo mai visto prima d’ora al cinema, ma ben conosciuto in pittura sin dai tempi di caravaggisti esperti come Gerrit Van Honthorst detto non per niente Gherardo Delle Notti e Georges de la Tour.

Barry Lyndon

Oltre l’immagine, il suono.

La colonna sonora assume in questo film un’importanza quasi pari a quella visiva. Ogni scena è commentata a livello sonoro da una marcetta piuttosto che da un lilliburlero oppure un concerto. Non c’è situazione che non sia sostenuta da un ritmo musicale, il che alleggerisce la visione e al contempo sostiene lo spettatore inducendolo ora a ironizzare sulla situazione e ora calarsi totalmente in essa, come nel caso della meravigliosa scena dell’incontro tra Redmond Barry e Lady Lyndon, enfatizzato da un adattamento sentimentalmente strepitoso del trio in mi bemolle maggiore per pianoforte, violino e violoncello, op. 100, composta nel 1827 da Franz Schubert. Oltre Schubert, anche Bach, Mozart, Paisiello, Handel, Vivaldi.

Restano da lodare le interpretazioni, sulle quali non ci si può soffermare più che sottolineando l’ottima prova di Ryan O’Neal, perfetto nella parte del libertino, di Marisa Berenson nei panni di Lady Lyndon, di Murray Melvin nel ruolo del reverendo, strepitosamente interpretato con quel suo viso spigoloso e triangolare che incorniciato da quella veste pare un perpetuo tableau vivant di qualche ritratto dell’epoca. Da segnalare anche l’irriconoscibile presenza di Hardy Krüger nelle vesti del generale prussiano; tredici anni prima l’attore tedesco interpretava lo spaesato smemorato in Le Dimanches De Ville D’Avray di Serge Bourguignon. E poi tutti gli altri che non è il caso di citare.

Su questo film ci sarebbe ancora molto e molto da dire, dunque mi limiterò a riportare quanto evidenziato dal professor Giaime Alonge il quale rileva, a ragione, come il voice over, la voce fuori campo, sostituisca di fatto quello che nel cinema muto era rappresentato dalle didascalie. Alonge inserisce questa scelta in un discorso più ampio, d’un recupero del cinema muto avviato da Kubrick sin da 2001: Odissea Nello Spazio dove abolì la parola sia nei primi quarantacinque minuti, sia negli ultimi venti. La forza dell’immagine è evidentemente la prima preoccupazione del regista americano, per il quale la colonna sonora completa l’esperienza senza che l’una intorbidisca l’altra.

Barry Lyndon

Barry Lyndon è un film dal potenziale espressivo quasi illimitato, è il vertice d’una filmografia composta di soli vertici. Questo film non sarà mai stato visto abbastanza volte. 10 e lodi, infinite lodi.

10

Danilo Cardone

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