Leviathan – Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel [2012]
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My ship isn’t pretty
Mi capita spesso di chiedermi quale sia il ruolo del documentario all’interno delle espressioni cinematografiche.
Quanta arte c’è in un documentario? Quanta vera innovazione viene apportata alla cinematografia e quante volte invece viene presa la forma classica, come se fosse un modulo da compilare, e la si riempie con dei dati piuttosto che immagini d’archivio?
Ebbene, nel particolarissimo caso di Leviathan siamo nella situazione esattamente opposta: quanto è importante l’innovazione tecnico-espressiva e quanta importanza hanno i dati e le informazioni su un determinato tema?
Il mistero non si risolve ma s’infittisce a dismisura a fronte di quest’opera nella quale non esiste filo logico se non quello della successione delle azioni necessarie per svolgere un determinato lavoro. Nel caso specifico siamo a bordo di un peschereccio e osserviamo il silente e duro lavoro dei pescatori.
Osserviamo, si, ma difficilmente capiamo qualcosa. Tutta la prima parte è girata in notturna, su questo peschereccio che solca i mari mentre i marinai s’agitano, si muovono e fanno altre cose incomprensibili primi d’issare le reti e raccogliere, pulire e sezionare il pesce. La tecnica utilizzata non è assolutamente estetizzata, dunque il risultato è che in mezzo al mare, di notte, sullo schermo si vede ben poco. Lampi di luce, catene di ancore che sfregano contro il ferro della barca.
Esperienza sonora che si somma all’esperienza visiva, laddove di visivo c’è ben poco. Eppure quel poco che abbiamo di fronte agli occhi è la realtà di quei momenti, dunque pare questo il vero documentario che documenta! Noi siamo a bordo della nave e ondeggiamo, scivoliamo e puzziamo come tutto il resto che c’è sulla nave.
L’aleatorietà dell’immagine è però estrema. Non si capisce quasi nulla e quel poco sono immagini esteticamente brutte, fredde, crude. L’acqua si trasforma in sangue slavato dai pesci morti, i pesci vengono agganciati con arpioni e sezionati con un grosso coltello esattamente davanti alla macchina da presa, senza commenti vocali, senza musiche di sottofondo.
Poi la macchina da presa s’immerge di colpo nell’acqua, ne riesce, si rimmerge e esce ancora una volta, e così a oltranza. Poi ci troviamo sul pavimento della nave, bagnati in un brodo di acqua salata e pesci agonizzati, e noi siamo lì sballottolati da una parte all’altra della prua, come se non avessimo corpo umano, né dignità.
Il documentario è perfetto. La forma è nuova, il senso di straniamento sensoriale anche. Il documentario è vera e propria esperienza scevra da fuorvianti e soggettivissime parole.
Dove sta il problema? Risiede tutto qui: nella noia.
Immensa noia che attanaglia uno spettatore difficilmente pronto a tale viaggio, tant’è che in molti hanno abbandonato la sala già dopo pochi minuti, in una delle proiezioni del 30° Torino Film Festival. E purtroppo non c’è da accusare quei poveretti che magari hanno pagato un biglietto intero per vedere il totale disfacimento della buona immagine. I documentari in HD di David Attenborough sono lontani anni luce, quelli di Yann Arthus-Bertrand non paiono essere mai esistiti.
Leviathan è dunque un film dall’anima doppia e stridente. Da un lato c’è l’arte, la capacità registica di uscire dalla banalità e della perpetua ripetizione che attanaglia il genere documentaristico, ma dall’altra c’è la noia, c’è un’immagine potentissima ma spesso illeggibile. Insomma, se il cinema è, per sua natura, anche intrattenimento, dov’è, e soprattutto, cos’è l’intrattenimento? Non importa. È bello vedere vivere l’espressione, percepirla attiva, fervente, anche se una visione così non la auguro a nessuno.
Danilo Cardone