Chained – Jennifer Lynch [2012]
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In the mood for love
Un uomo rapisce madre e figlio. Il più piccolo finirà schiavizzato per anni, mentre alla madre andrà anche peggio.
Il nuovo film di Jennifer Lynch, figlia del celebre David, è una commistione di thriller psicologico e di horror che apre il 30° Torino Film Festival in modo un po’ macabro e angosciante ma che non delude.
Dietro alla patina narrativa già rintracciabile in parecchi altri film degli ultimi quindici anni, c’è un discorso ben più valido rispetto a suoi omologhi predecessori. Il pazzo di turno non è tale per mostruosa deformazione, bensì è un uomo apparentemente normale, un tassista come tanti che cela dietro alla maschera di noncurante qualunquismo una serie di traumi infantili conditi da impliciti discorsi filosofici che sfociano in un nichilismo assoluto a solo sbocco misogino.
L’odio per la donna, dunque, ancor più che l’odio per l’infanzia.
Il bambino, che diviene ragazzo nel tempo filmico è schiavizzato, recluso, incatenato, come recita il titolo [non condiviso da regista e attore protagonista, ma questo è un altro discorso], eppure riceve delle cure, minime, essenziali ma perfettamente coerenti con la visione distorta che il pazzo carnefice ha della vita.
L’infanzia e l’adolescenza sono dunque i termini di un odi et amo cruento ma passionale del quale invece la donna non può godere. Le sevizie e gli omicidi perpetrati testimoniano il folle amore che idolatra la donna a tal punto da generare istinto omicida. Non è amore e odio ma un odio talmente profondo da dover essere insitamente controbilanciato da un’attrazione smisurata, incalcolabile e, dunque, inafferrabile, mai saziabile.
La donna emerge come origine del male, portatrice eterna di quel peccato originale che condanna l’uomo a desiderarla ferocemente. La sconfinata misoginia appare come necessaria tanto quanto il respirare. Non è un diletto né la sterile operazione intimidatoria di un serial killer di quelli che andavano di moda nel cinema degli anni ‘90, ma un vero e proprio atto di redenzione non finalizzato ad alcun appagamento societario. L’uomo agisce per sé e per nessun altro.
Jennifer Lynch è brava a creare ripetute tensioni narrative e psicologiche che si alternano e si sovrappongono quel tanto da non annoiare e anche se la storia, ai più disattenti, può apparire come già vista, ci pensa il colpo di scena finale a dare un senso al tutto, giustificare alcune cose passate e, chissà, altre future.
Ciò che è certo è che se alcune sequenze possono apparire un po’ ridondanti in quell’insegnamento forzato del vecchio pazzo al giovane recluso, altre non posso essere catalogate come semplici riempitivi. Quando il ragazzo sfiora per la prima volta il corpo nudo d’una ragazza viva c’è quel limes straordinariamente reso che proietta la tesa situazione su un piano attrattivo, e poi sessuale, umano, di repulsione, nonché d’indagine anatomica finalizzata, di nuovo, a quanto appena descritto ma anche ad altro, a un dubbio che nello spettatore aleggerà fino alla fine della pellicola. Insomma, questa breve e apparentemente innocua scena contraddistingue probabilmente il più alto momento d’indagine psicologica d’un film che una parte della critica statunitense non ha voluto nemmeno prendere il tempo per osservare con occhio critico.
Buona la prova attoriale di Vincent D’Onofrio, il celebre palla di lardo del Full Metal Jacket di Stanley Kubrick che, a distanza di venticinque anni, continua ad essere la solita flaccida palla di lardo.
Chained è un buon film. Cruento per la carne e per la mente ma al contempo ben realizzato, conscio d’essere ciò che è.
Danilo Cardone