Shining – Stanley Kubrick [1980]
Eidolon
Esistono luoghi dove tutto ciò che vediamo e tocchiamo e sentiamo, corrisponde alla realtà.
Nessuna anomalia contraddistingue quei posti, tutto segue l’ordine delle cose e noi non rimarremo mai spaesati frequentandoli.
Esistono poi altri luoghi dove la realtà tangibile delle cose è soltanto una maschera del luogo stesso, una patina che costituisce l’interfaccia per poter entrare in contatto con forze più grandi di noi, con energie, positive e/o negative, che dominano il luogo e alle quali, volente o nolente, l’uomo deve sottomettersi.
L’Overlook Hotel è uno di questi.
Costruito sopra un antico cimitero indiano e posizionato sulla cima di una montagna nel mezzo del nulla, l’Overlook Hotel è una razionalissima struttura architettonica perfettamente funzionale per svolgere la sua funzione da contenitore di visitatori. Ma è quando si svuota, quando tutti se ne vanno perché la stagione è finita e rimane soltanto più il custode con la sua famiglia, che le cose cambiano.
Ciò che era celato fino a poco prima come in un profondo letargo, si risveglia nei silenzi invernali interrotti soltanto dallo sparuto vociare dei tre isolati abitanti. L’anima del luogo, l’energia che fu dormiente si palesa piano piano, man mano che passano i mesi, i giorni, le ore, e si riflette e si amplifica come un’eco inarrestabile tra le mura, gli oggetti, le persone. È dentro queste ultime che compie i suoi più grandi prodigi.
È difficile cercare di rintracciare i perché del fatto che in un determinato luogo avvengano certe cose. Il dato di fatto è che avvengono, così come è certo che alcune persone particolarmente aperte, dalla spiccata percettività [extra]sensoriale possano porsi in ascolto di determinati fenomeni.
È lo shining, la luccicanza, lo spiraglio che permette alla luce della essenza di ciò che crediamo reale di filtrare e rendersi visibile.
Stanley Kubrick giungeva dalla realizzazione di una tripletta formidabile di capolavori: 2001: Odissea Nello Spazio che prende come pretesto la fantascienza per analizzare i più grandi quesiti della filosofia, Arancia Meccanica che prende come pretesto un distopico mondo futuro per analizzare la violenza insita nell’uomo, e infine Barry Lyndon che prende come pretesto un romanzo storico per analizzare vizi e virtù morali dell’essere umano.
Shining, pare evidente, non è un film horror.
Il fatto che in molti lo considerino come tale significa che quei molti non siano in grado di leggere nell’opera, in ordine alle precedenti e alle future, la matrice orrifica come semplice pretesto per sviluppare con efficacia e serietà assoluta una riflessione sull’essere umano e sulla sua capacità di relazionarsi con il visibile e l’invisibile.
Familiari, funzionari, sé stessi, oggetti inanimati. Quanto e cosa l’uomo è in grado di controllare con la ragione?
Estendendo il ragionamento il film diventa metafora, con tanto di barlume d’illusione ottimistica finale, dell’intera società, dove nel massacro costante che l’uomo perpetra nei confronti dell’uomo stesso, soltanto l’uomo illuminato, dotato di shining [che è l’embrione di ciò che fu l’oltre-uomo nietzschiano in 2001: Odissea Nello Spazio] può salvarsi e a sua volta salvare.
Tutto ciò sta nella forma filmica.
Una forma filmica che ricalca la circolarità degli eventi, costante onnipresente del cinema kubrickiano tanto quanto di quello di Roman Polanski. Dunque ecco i labirinti. Labirinti su labirinti che si alternano, si susseguono e si sovrappongono. Siepi che portano a siepi che portano ad altre siepi come corridoi che conducono a corridoi che finiscono in altri corridoi, dove la mente si contorce su sé stessa e s’ingarbuglia senza possibilità di dissoluzione.
Il maestro unico e inarrivabile Stanley Kubrick anche se non è l’ideatore della storia [della quale i meriti vanno a uno Stephen King che non approvò la versione filmica] riesce a farla sua con un’intimità tale da riversarla tutta nella pellicola.
Simmetrie ricorsive e onnipresenti unite a giochi geometrici che si ripetono all’infinito costituiscono l’intelaiatura strutturale attorno alla quale Kubrick modella l’opera.
Il montaggio, fase tanto cara al cineasta in questione, è straordinario. Non solo risulta impeccabile, non solo si esalta con incomparabile genialità nelle scene delle visioni negli spazi del deserto hotel creando uno standard cinematografico ma persino eccelle nella commistione d’immagine e di suoni, trovando apice nella composizione della colonna sonora, per la maggior parte formata da musica classica cara al regista, che definisce in totale autonomia stati e umori di personaggi e ambienti.
Un nuovo standard viene anche creato grazie al migliore degli utilizzi possibili effettuati con la steadicam, la macchina da presa portatile che assorbe qualsiasi tipo di oscillazione improvvisa e di vibrazione, inventata proprio in quegli anni lì dall’operatore di macchina di questo stesso film, Garrett Brown. L’etereità delle riprese effettuate a ridosso dei personaggi e in particolare del triciclo del piccolo Danny che viaggia solitario tra i corridoi del palazzo, sono il massimo del palesamento di un’inconsistenza tangibile che fa parte della parte filmica della scena. Le riprese effettuate con questa nuova macchina da presa garantiscono in quest’occasione una situazione di inscacciabile presenza extrasensoriale tutta creata in un fuoricampo che è paradossalmente in campo. Ciò che non si vede non fa solo parte di qualcosa che non è filmato ma anche, e soprattutto, di ciò che è filmato ma che non si vede. Lo spazio liminale costituito dall’occhio della macchina da presa, ovvero dal suo obiettivo, è anch’essa manifestazione tangibile di qualcosa che percepiamo, che fa parte della scena, ma che non possiamo vedere direttamente.
La magistrale bravura di Kubrick non si ferma qui e si riversa totalmente nella fotografia e nell’espressionismo che deriva dall’utilizzo dei colori. Ambienti caratterizzati da colori caldi che si affacciano su ambienti caratterizzati da colori freddi, o viceversa. Con un procedimento che sarà ancora riconoscibile nel suo ultimo film Eyes Wide Shut, Kubrick genera per mezzo di colori antitetici tra loro, instabilità nello spettatore. La dissonanza cromatica crea stridenti ma accomodanti contrasti che pongono lo spettatore in una situazione di disagio dalla quale non si può sfuggire se non uscendo dalla sala cinematografica.
Il verde acido della stanza 237, l’alternanza di rosso e bianco nel bagno non-luogo dove il protagonista Jack Torrance si farà pulire il vestito dal cameriere. Come si può giocare meglio con l’utilizzo delle luci e dei colori?
Stanley Kubrick ri-definisce modi e generi cinematografici.
D’altronde quante scene che fanno ormai parte dell’immaginario cinematografico collettivo!
Chi non ha mai visto il folle protagonista rompere la porta del bagno dove si nasconde terrorizzata la moglie armata di coltello da cucina, utilizzando con prepotenza una temibile accetta? Oppure chi non ha mai visto l’apparizione fantasma-gore-ica delle due gemelline d’azzurro vestite? Sono sicuro che in molti persero qualche notte di sonno a causa di queste scene.
Bravura delle bravure, Kubrick non solo crea alcune tra le scene più importanti e famose dell’intera storia del cinema, bensì si prende anche l’intelligentissimo lusso di creare citando, ovvero facendo riferimento a fonti iconografiche pre-esistenti, a sottolineare come tutto si modifichi ma nulla si possa creare o distruggere, e come la conoscenza della storia [dell’arte, del cinema] sia fortemente formativa per il futuro momento creativo.
In particolare si può far notare come la scena dello sfondamento della porta in legno a suon di accetta sia una citazione di una delle scene più importanti del film Il Carretto Fantasma del 1921 dell’altro cineasta che fu anche attore Victor Sjöström. Tra l’altro è interessante rilevare come il 1921 sia l’anno che compare ben evidente nell’enigmatico finale proprio di Shining, assumendo così una sfumatura di diretto omaggio al film del regista svedese. E che dire delle gemelline, se non che sono una rielaborazione filmica sulla identica base visiva della fotografia Identical Twins scattata nel 1967 da Diane Arbus?
A questi elementi si deve aggiungere l’interpretazione degli attori. Pare persino superfluo citare quella che è a tutti gli effetti la miglior interpretazione di Jack Nicholson nei panni dell’allucinato Jack Torrance. Con uno sguardo à la Charlie Manson [come richiesto da Kubrick stesso], Nicholson è il volto e il corpo di una delle più riuscite pazzie cinematografiche. Shelley Duvall, fino a quel momento quasi solo semi-musa di Robert Altman, è la parte che completa Jack Nicholson. Le sue urla e le sue smorfie di terrore sono una delle immagini che più rimangono impresse di quest’opera. Persino il bambino è all’altezza della situazione con le sue spaventevoli visioni.
Shining è dunque un film fuori categoria, che non si può paragonare né emulare. È l’insieme di tantissimi fattori di livello massimo che hanno contribuito a formare una delle opere cinematografiche più riuscite della storia. Chi non l’ha mai visto si ponga delle domande.
Danilo Cardone
bravò!
wow grande recensione! d’accordissimo.