Gocce D’Acqua Su Pietre Roventi – François Ozon [2000]
Al di là del bene e del male
Un appartamento con due personaggi [che sul finale diventano quattro].
In quella scatola sigillata si ricrea autonomamente un ambiente nuovo, un mondo nuovo, completamente isolato dal tutto il resto. Al suo interno i protagonisti vivono, si muovono, interagiscono, amplificando istante dopo istante i loro pensieri, le loro emozioni, il loro io.
Il risultato è una totale implosione della nuova microsocietà nella misura diametralmente opposta a quella dell’esplosione dell’ego del più forte tra loro.
L’oltre-uomo di Nietzsche è nascosto in quella scatola.
E affiora, mano a mano che passano i minuti egli esce allo scoperto distruggendo qualsivoglia morale, celebrando solamente il sé e rendendosi sempre più idolo da venerare agli occhi degli altri.
L’amore, quello che lo stesso Rainer Werner Fassbinder, ideatore della piéce teatrale [mai inscenata prima] dal quale questo film è tratto, definì come punto irraggiungibile per l’uomo, è l’illusione dei deboli. In nome dell’amore i deboli si sottomettono e annientano il sé perseguendo un nihil che luccica come oro. In nome dell’amore cedono la loro embrionale vita a chi gliela sottrae e per quest’ultimo si sacrificano con il sorriso.
L’inevitabile strada che l’uomo intraprende seguendo i propri sentimenti emerge in quest’opera come un vicolo cieco, spianato da quell’individuo che nel ragionamento nieztschiano si rileva come superiore [e che portò, travisato, al sorgere degl’ideali nazisti] ma che nella realtà è tale solo per la fagocitante volontà di potere.
Il potere, la necessità di possesso perseguita tramite il dominio, il controllo del prossimo, per giungere a un piacere della carne e dello spirito che celebra l’Uomo come essere potenzialmente perfetto.
Il sesso è la chiave che [Fassbinder] Ozon utilizza più delle altre per dilaniare le coscienze e per perseguire quello status di egotica superiorità che caratterizza la vera natura umana. La debolezza e le insicurezze dell’uomo sono la serratura perfettamente oleata che non oppone la minima resistenza ad essa.
E ancora di più, il tema del sesso non va solamente inteso come atto che attraverso il piacere attiva un gioco di dominio e sottomissione che pare star scritto nel dna dell’essere umano e per esso permette di abbassare ogni maschera e mettere a nudo il sé di fronte all’altro.
Il sesso in questo ampissimo discorso [qui miseramente ridotto] di marcata impronta filosofica è anche inteso come genere dell’uomo. Come sempre sono cari al regista François Ozon, i rapporti tra i personaggi non sono mai totalmente eterosessuali. E a dir la verità nemmeno totalmente omosessuali. Anzi, in questo film è proprio l’androginia di tutti i personaggi in scena ad avvalorare l’ancoraggio interpretativo a Nietzsche e al suo oltre-uomo.
Così il film svela senza mezze misure tutta la crudeltà dell’uomo, quella più recondita e solitamente accuratamente celata. Siamo in presenza di uno dei pochissimi diretti discendenti del Sussurri E Grida di Bergman del ’72. L’uomo scopre l’uomo osservando l’uomo. Il sé ripudia il sé osservando il sé.
L’essere umano viene minuziosamente scarnificato, fino a portare alla superficie le sue ossa, il suo midollo, e mostrare il suo lato più animalesco, bestiale, dove il violento dominio assume sfumature ancora più crudeli perché si è coscienti di essere dominatori, mentre la debole sottomissione è ancora più dolorosa perché è anch’essa pienamente cosciente d’essere ciò che è.
I meravigliosi [meravigliosi!] quattro protagonisti Bernard Giraudeau, Malik Zidi, Ludivine Sagnier e Anna Thomson sono i volti e i corpi di questa mattanza che spaventa a morte il pur ben riuscito [ma troppo poco filosofico] Carnage di Roman Polanski.
François Ozon recupera, rilegge e integra alla perfezione lo script fassbinderiano con la sua tecnica pulita, limpida e geometrica che s’esalta nella costruzione degli spazi. La claustrofobica scatola teatro delle vicende appare come tale soltanto quando il regista decide di farla apparire come tale. È una bravura che solo pochi altri, e si veda l’Alfred Hitchcock de Il Delitto Perfetto e di Nodo Alla Gola, sono riusciti a realizzare.
Una fotografia straordinaria appaga l’occhio senza soste, mentre una teatrale suddivisione in atti scandisce il ritmo della storia.
Oltretutto Ozon richiama Fassbinder, ma pur sempre regista francese rimane, e le sue intrinseche citazioni di Eric Rohmer presenti in molti altri suoi film, anche qui sono presenti.
Da notare è la somiglianza tra una delle scene finali del film e il dipinto del 1897 La Madre Di Lemminkäinen del pittore finlandese Akseli Gallen-Kallela che illustra una scena chiave della vita del dio della magia Lemminkäinen, ovvero uno dei protagonisti del poema finnico epico-mitologico Kalevala. Le corrispondenze non paiono solamente formali, bensì sarebbe interessante da analizzare approfonditamente, in altra sede, il rapporto diametralmente opposto delle madri nei confronti dei flgli, in entrambi i casi.
Gocce D’Acqua Su Pietre Roventi è sicuramente una delle opere più riuscite di François Ozon e giunge un solo anno dopo il già convincente e per certi versi sconvolgente Amanti Criminali. Insomma, da vedere.
Danilo Cardone