Drive – Nicolas Winding Refn [2011]
Direct
Un autista, guida. Che sia per fare lo stuntman, il pilota o per una rapina in banca, lui non fa altro che guidare. Non parla nemmeno. La sua dote peggiore è sicuramente la loquacità.
Nicolas Winding Refn rafforza il suo stile scandinavo tenendosi ben lontano dai dogmi vontrieriani. Le sue macchine da presa sono silenti, posate, pacate, escludono movimenti bruschi e l’illuminazione sulla scena è sempre cinematograficamente impeccabile. Insomma, il suo rifiuto per il finto documentarismo di Von Trier e soci pare non solo eluso ma del tutto ripudiato.
Ora rimane soltanto più da capire se questa scelta sia intelligentemente ponderata o se sia soltanto frutto dei tempi e di un conformismo che ne deriva.
Il silenzio è il tema portante del film, il fil rouge che lega le scene e i personaggi tra loro. I dialoghi sono ridotti al minimo e molto non-detto sa a tratti esprimere più di mille superficiali e forzate parole. E’ un merito, bisogna riconoscerlo.
Bisogna però anche per dover di cronaca notare come la rarefazione degli ambienti sia ormai quasi una costante di un certo cinema che punta a fare la figura del cinema d’autore nei vari festival, e non è un caso se infatti questo lavoro ha vinto il premio come miglior regia all’ultima edizione del Festival di Cannes.
Questi silenzi esasperati sono dunque già visti al cinema negli ultimi anni e non fanno più grande presa nello spettatore aggiornato. Sofia Coppola è colei che maggiormente ha calcato la mano in questo senso prima con il riuscitissimo, soprattutto per il tempo nel quale è uscito dando il via a questo filone cinematografico, Lost In Translation e poi con il più recente Somewhere che contiene tanti di quei silenzi inutili per il solo fatto di metterli in mostra, che quasi potremmo parlare di manierismo.
E poi potremmo citare molti altri casi, tra i quali Michael Haneke con la sua perfezione stilistica, autoreferenziale, copiata, etc etc ma pur sempre perfezione rimane.
Dunque Refn non inventa nulla, anzi, dimostra soltanto di inserirsi in una linea già tracciata. Non è certamente un problema. Il problema emerge quando tutta quella pseudo-critica ruffianamente indie che si fregia di questo titolo non per evidenziare la propria apostasia di pensiero ma solamente per inserirsi nella denominazione più cool del momento, esalta quest’opera come se fosse il capolavoro dei capolavori della storia del cinema.
Ma questo è un altro discorso.
Il vero problema di Refn è che sottomette questa sua tecnica formalmente valida a una banalità di fondo non estrema, ma pur sempre presente. La storia dell’uomo che non ha nulla da perdere e per questo sacrifica la propria vita in favore di una ragazza del quale si innamora è vecchia e stravecchia nel cinema soprattutto hollywoodiano. C’è pure il classico figlio della ragazza in questione, che dovrebbe suscitare tenerezza e compassione ma che invece infastidisce chi ha già una malizia cinematografica tale da non farsi intortare con tali trucchetti da baraccone.
Detto ciò, c’è anche del buono in quest’opera, ed è quasi tutto nella seconda metà del film.
In realtà già l’intro del film porta lo spettatore direttamente nell’anonimità della frenetica azione dei personaggi, facendoci un po’ scomodamente sentire parte della delicata situazione che si sta evolvendo sotto i nostri occhi.
Poi però la banale prevedibilità del succedersi degli eventi trascina il film nella noia, fino a quando avviene il colpo di scena sul quale si fonda tutta la seconda parte del film. S’introduce così l’azione, ridotta al minimo ma di estrema efficacia, e anche i silenzi assumono maggiore spessore e contribuiscono a creare una palpabile tensione nelle scene più concitate.
Parte della buona riuscita del film è da imputare al protagonista Ryan Gosling, vera e propria maschera di ghiaccio che è tanto anonima quanto efficace proprio quanto le auto sulle quali si mette al volante.
La fotografia è ricercata ma non si può proprio dire sia un capolavoro inarrivabile, mentre il montaggio si dimostra assolutamente impeccabile sia nei ritmi lenti che in quelli accelerati.
Drive è un film thriller, giustamente [nel senso di efficacemente] violento ma tanto romantico al punto da reprimere i nostri istinti primordiali contro il prossimo. Insomma, se questo fosse lo standard del cinema contemporaneo potremmo già essere soddisfatti, ma non per questo si deve santificare un regista che non fa altro che il suo lavoro.
Danilo Cardone