Velluto Blu – David Lynch [1986]
Integerrima sottomissione
Un giovane dell’idilliaca provincia americana, tutta villette perfette con tanto di staccionata bianca appena verniciata, s’imbatte in un orecchio mozzato gettato nel bel mezzo di un anonimo campo incolto. Vista la superficialità della polizia, deciderà di mettersi lui stesso a investigare, con un’innocenza ben lontana dai drammi che lo stravolgeranno vorticosamente…
È un David Lynch pacato, lontano dal suo standard visionario così come dalla fantascienza del suo precedente lavoro Dune.
Il talento c’è e si vede. L’impostazione formale di ogni scena è lodevole. Ogni elemento presente è stato studiato prima di esser messo lì, e già la sola disposizione delle stanze di un appartamento nodo cruciale della vicenda pare finemente architettato non in un totalmente assente decorativismo ma nella sua funzionalità filmica.
Tutto ciò permette a Lynch di giocare al meglio con una profondità di campo sempre utile e di selezionare una quantità sufficientemente elevata di lenti da montare su una macchina da presa che è sempre a suo agio tanto nei larghi spazi di un parcheggio quanto in un’angusta scala esterna di un edificio.
Pare evidente come la perizia del regista abbia un peso determinante tanto per il suo cinema quanto per quello altrui, ad esempio nell’influenza che avrà sull’onnivoro Tarantino al momento di “congelare” i suoi personaggi in film come Pulp Fiction.
A ciò però si deve accostare una storia molto lineare inscenata in maniera classica [fin troppo] dove il solo fatto di smascherare il lato marcio, il sottosuolo degradato dell’apparentemente fulgida provincia americana non basta a dare originalità e lustro a un film dunque mediocre malgrado buona parte della critica si ostini da anni a ricalcare senza troppe convincenti argomentazioni riguardo alla presunta genialità di quest’opera.
Ad alcune trovate intelligenti e ad altre spiccatamente ironiche si uniscono dei dejà vu troppo consolidati per avvincerci ancora in maniera sincera e una trama che si risolve in sé stessa senza mai coinvolgerci fino in fondo.
Anche la canzonatura di alcuni luoghi comuni propri del territorio e di chi lo anima fanno presa soltanto nelle prime battute, mentre poi si esauriscono in un’autoreferenzialità ricorsiva all’interno dell’opera stessa. Su tutte spicca il finale troppo forzato e scontato per essere incisivo e troppo banale per avere accenti di realismo.
Molto buono l’utilizzo che Lynch fa dei colori, ai limiti dell’espressionismo. È forse questo ciò che a livello visivo maggiormente s’imprimerà in noi.
Molto buona la prova attoriale di un esaltato Dennis Hopper così come affascinante è il personaggio che prende forma grazie al giovane Kyle MacLachlan reduce anch’esso dall’esperienza Dune. Non disprezzabile nemmeno Isabella Rossellini in un ruolo sufficientemente ardito e complicato.
Velluto Blu è dunque un film valido ma non esaltante, guardabile ma a mio avviso non cruciale per una storia del cinema che al nome di David Lynch dovrebbe rispondere con ben altri titoli.
Danilo Cardone
Concordo con questa critica. È un film fatto con maestria solo stilistica, estetica, ma la trama è effettivamente scontata: è la solita facile critica all’ipocrisia della società, vista già mille volte al cinema, ma continuamente (purtroppo) riproposta.
Lo stesso ad es. nel film “Das weisse Band” (il nastro bianco) – del tedesco Haneke , palma d’oro a Cannes nel 2009: ottimo dal lato stilistico, estetico, ma scontato e ormai inutile nella tematica: l’ipocrisia della società delle Germania prussiana d’inizio novecento, col suo maschilismo da padrone assoluto allora imperante. A che servirà mai ? A nulla ! Non è più così da almeno mezzo secolo: perciò una ” denuncia ” superflua, oggi del tutto inattuale.
Concordo pienamente. e citi bene Haneke, maestro della tecnica, vacuo nella sostanza. più autoreferenziale di Haneke, c’è soltanto Haneke stesso.