Les Bien-Aimés – Christophe Honoré [2011]
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Les trop-aimés
Presentato alla 64a edizione del Festival del Cinema di Cannes prima e al 29° Torino Film Festival poi, Les Bien-Aimés ha attirato su di sé grande attenzione mediatica e molte aspettative.
A contribuire a ciò, in larga misura, la presenza sulla scena della mitica Catherine Deneuve, della figlia Chiara Mastroianni e della giovane promessa del cinema francese Ludivine Sagnier, senza contare il ruolo un po’ defilato ma ben presente dell’altrove regista Milos Forman.
È sinceramente difficile avere un’unica impressione riguardo a questo film.
Il guaio è che ci sono troppe idee tutte buttate assieme nella mischia. Il regista vuole toccare molti temi e lo vuole fare tramite svariati stili, ma esagera.
Dopo un inizio focalizzato sui piedi delle donne come nella migliore tradizione truffautiana de L’Uomo Che Amava Le Donne, si arriva alla prima scena ambientata in un negozio di scarpe, evidente omaggio all’indimenticabile negozio di scarpe, fulcro di parte delle vicende di Baci Rubati del ’68 del già citato François Truffaut.
A seguire è il turno dello sviluppo del tema della prostituzione intesa come salvifica forma temporanea di lavoro, esattamente come affrontata [ma quanto più approfonditamente!] nel capolavoro di Jean-Luc Godard del ’62 Vivre Sa Vie. Poi tocca al personaggio maschile di Jaromil da giovane interpretato dal serbo Radivoje Bukvic, così dannatamente simile nell’estetica e nello stile agli “uomini veri”, autoritari, liberi e tombeur de femmes come tanto piaceva rappresentarli a Godard, e nella fattispecie il riferimento è all’inarrivabile Jean-Paul Belmondo di A Bout De Souffle del ’60.
E poi tutti gli altri temi affrontati, che spaziano dall’omosessualità all’aids, dal suicidio al divorzio, passando per il rapporto genitori-figli, l’11 settembre, il comunismo e le invasioni russe in quel di Praga. Manca solo la piaga della droga e la lista sarebbe completa.
Tutto ciò è un problema, perché se la messinscena sta tranquillamente in piedi con una fotografia che può non piacere ma è ragionata e la scelta di inserire 12 brani cantati costituisce così una sorta di musical, nulla è davvero affrontato con sensibilità e tutte le buone intenzioni del regista naufragano nella smania d’inserire ogni tema e ogni citazione registica. Si fa confusione. Con i personaggi, con le loro storie, con le città. Di nulla riusciamo ad appassionarci anche se di tutti i personaggi vorremmo farlo.
La prima parte è quella delle buone speranze, per la trama e per il film. È qui la Sagnier a dominare la scena. La seconda metà è invece più debole, troppo frastagliata e un po’ qualunquista. È da apprezzare l’assenza di pretenziosità da parte del regista. Ogni avvenimento e ogni scelta paiono davvero come un omaggio al cinema francese, come una continuazione a decenni di distanza, però questo non basta.
Si aggiunga a ciò un’interpretazione della Mastroianni, musa del regista in questione Honoré, non propriamente all’altezza di una produzione di questo livello. Anche se guardandola in faccia si ha ancora l’impressione di guardare il padre Marcello, manca totalmente lo charme che aveva il Guido Anselmi di 8 e 1/2.
Honoré, è evidente, cerca di fare un cinema d’autore che sia cinema pienamente cosciente d’essere tale, di essere storia e di essere finzione. E da questo punto di vista ci riesce in pieno. Si perde però quando vorrebbe dare tutta quella manciata di spunti per approfondire la psicologia e i sentimenti dei personaggi. Il suo è un cinéma d’auteur che vive principalmente inquadrando capezzoli, piedi e fondoschiena dei personaggi in scena. Non che questo sia disprezzabile o poco efficace, però l’estetica talvolta non basta a dare spessore alle scene.
Scene che si ergono sulle basi delle musiche inizialmente simpatiche poi ripetitive e su una sceneggiatura con qualche raro spazio di brillante acume, ma che nella maggior parte dei casi non è così tagliente e acuta come avrebbe potuto e voluto.
«E’ triste dover cambiare la visione dell’amore solo perché non si conosce la parola per esprimerla correttamente.»
E’ una frase pronunciata da un cecoslovacco emigrato a Parigi che racchiude in sé tutta l’opera di Honoré: tante idee da voler rappresentare grazie alla conoscenza della maggior parte delle tecniche per poterlo fare, non conoscendo però quelle particolari che servirebbero al regista per avvicinarsi il più possibile alla concretizzazione dell’astrazione che caratterizza la vita dell’idea.
A raccapezzare un po’ il film ci pensa la Deneuve, sempre elegantissima e raffinata con il suo faccione ultra-famoso, la quale, bisogna segnalarlo, continua a distanza di anni e anni a interpretare quasi sempre lo stesso ruolo, con accenti differenti. Una meretrice, ecco che cos’è la Deneuve a livello cinematografico, sempre alle prese con cause sessuali o eccessivamente represse o affrontate troppo di petto: Il Vizio E La Virtù di Vadim, Repulsione di Polanski, Bella Di Giorno di Buñuel, La Cagna di Ferreri, Due Prostitute a Pigalle, arrivando fino a Potiche, La Bella Statuina di Ozon e ora questo Les Bien-Aimés. Senza alcuna offesa per una delle più grandi attrici del cinema francese, ovviamente, che dimostra così d’essere ancora in piena forma e pronta a stuzzicare le sommesse fantasie d’una fascia di pubblico molto ampia.
Les Bien-Aimés è dunque una delle grandi delusioni dell’anno. Non un film inguardabile, però troppo lungo, vago e confuso dar poter essere consigliato.
Danilo Cardone