La Collezionista – Eric Rohmer [1967]
Dialoghi sull’a-moralità
Terzo in ordine cronologico, ma quarto nelle intenzioni, dei sei racconti morali, La Collezionista è probabilmente uno dei film più densi di tutta la filmografia di Eric Rohmer.
La Collezionista è un film sul sé e sui meccanismi che lo governano. È un film sulla coscienza e sulla morale dell’uomo che devono costantemente scontrarsi con le imposizioni societarie.
La Collezionista è un vero film di rivoluzione. Di e non sulla rivoluzione perché è solamente basato sulle idee e su come esse elaborino i pochissimi avvenimenti, spesso apparentemente insignificativi, che si susseguono in una qualsiasi vita umana. Non c’è politica, non c’è letteratura, non c’è pittura, non c’è musica… non c’è nulla di tutto ciò nei dialoghi e nelle riflessioni dei personaggi. C’è soltanto il sé.
Il sé come elemento del Tutto, e al contempo come entità a sè stante, prima fra tutte che sentiamo di dover accordare.
Non c’è storia. La storia è la storia del sé dei personaggi. In particolare di uno, Adrien, un giovane e aitante commerciante d’arte a tempo perso che si ritrova a condividere un mese delle vacanze estive in una villa nel sud della Francia assieme a un caro amico e a una ragazzina, re-interpretazione antiedipica di Lolita, che interpreterà il ruolo di scombussolatrice delle stasi dell’animo.
Stasi dell’animo, equilibrio interiore che è nelle intenzioni di Adrien nel momento in cui mette piede nella villa di campagna. Abituato a far vita notturna e sregolata coglie l’occasione della casa in riva al mare per dedicarsi alla coltivazione e alla cura, quasi una purificazione, del sé che parte innanzitutto dalla riscoperta per la Natura e per i ritmi naturali dell’uomo. Qui vi è la dimostrazione dell’importanza della simbiosi dell’uomo con il cosciente fluire della natura, ma al contempo è evidenziata la fondamentale rilevanza dell’esperire umano. Per poter apprezzare appieno ciò che finora è sempre stato naturalmente sotto i nostri occhi, è necessario aver artificiosamente occultato quella parte della nostra vita. È necessario aver sperimentato ed esaurito l’altra faccia della medaglia.
Nel far ciò si va a creare un dittico d’esperienze che deve obbligatoriamente, prima o dopo, sfociare in una fusione delle due partorendo così una nuova visione del mondo. Per Adrien questa visione è la visione [non dichiarata, ma evidente] proposta da filosofi del pensiero quale è l’indiano Jiddu Krishnamurti. La visione, non solo della natura, ma di tutto ciò che ci circonda è per lui esente da qualsiasi tipo di memoria e di pregiudizio derivante da essa. Ogni ricordo modifica l’approccio puro e autentico che si può avere per un qualsiasi elemento di ciò che esiste. Adrien, acculturato, filosofo nei fatti nonché esperto d’arte orientale s’inserisce perfettamente in questa linea di ripudio della comodità del basarsi su esperienze passate che vanno obbligatoriamente a precludere una visione integra e intera di quella che proprio Krishnamurti chiamava Verità, ovvero l’essenza di ogni cosa.
E così, il nostro Adrien dai buoni propositi, s’avvia alla sua personale temporanea apostasia societaria, al suo isolamento eremitico.
Ecco però che in brevissimo tempo si manifestano le debolezze dell’uomo, anzi, della mente dell’uomo, onnivora di spiegazioni e di motivazioni per ogni azione che viene commessa. E così, pensiero su pensiero, l’uomo casca nella curiosità e nell’allontanamento che essa provoca dalla Verità krishnamurtiana. Ogni parola e ogni pensiero fatto crea dubbi, fratture, cesure con ciò che conosciamo, e se questo può sembrare un bene in base agl’ideali illuministici dei quali ancora noi oggi siamo figli, tutto ciò porta ad osservare ogni cosa per come la vogliamo osservare noi e non per come è nel suo essere.
Adrien sa bene tutto ciò e cerca di tenersi alla larga dalle tentazioni della materia, della carne e si issa sulla colonna dello stilita, dell’eremita che vive in cima alla colonna che lo salva dal peccato. Luis Buñuel ne seppe rappresentare a suo modo uno nel mediometraggio Intolleranza: Simon Del Deserto del 1965.
Ma Adrien non è un anacoreta e ben presto scenderà dal suo rifugio per tornare ad insinuarsi nella vita della comunità che si è formata nella villa/monastero.
È qui che entra in gioco la bella, ma ancor più che bella, sensuale e disponibile, Haydée. È lei il pomo della discordia fra i due protagonisti, ma ancor prima all’interno dei singoli protagonisti.
La visione evidentemente misogina sulla quale basa l’esperienze Rohmer [proprio come Buñuel] è nemmeno troppo velatamente sviluppata in due direzioni. Da una parte abbiamo la donna come femmina peccatrice. È lei la collezionista di uomini, quella priva di moralità [ecco cosa condanna maggiormente Rohmer!] che accumula uomini su uomini senza avere la possibilità intellettuale di farne una selezione. Al contempo è lei che scuote l’animo dell’uomo che tenderà ad ella per completarsi, per unirsi a ciò che lo renderebbe uomo completo, oltreuomo nietzschiano o androgina creatura mitologica per Gustave Moreau.
L’unione intima è però impossibile e, in fondo in fondo, data l’impossibilità oggettiva di attuare i principi krishnamurtiani nella vita quotidiana, approvata e condivisa da Rohmer stesso.
L’amore per la Passione, malgrado risulti come un semplice passatempo, è costante nel film e nella vita dell’uomo. E l’amore per la donna non deve essere escluso.
Certo è che per il regista anche se l’uomo non è moralmente corretto, sa tentare di esserlo, sa mettersi alla ricerca della retta morale, mentre la donna no. Ecco dunque giustificato il feticismo di fondo che permea tutta l’opera, proprio come Buñuel sa fare in Viridiana o in Bella Di Giorno, anzi forse ancor di più.
L’adorazione per la donna però non deve esclusivamente essere vista come materiale. Come brillantemente [e molto direttamente] evidenziato nel terzo prologo del film l’uomo, inteso come essere umano, tende sempre ed esclusivamente a ciò che egli reputa “bello”. È un bello soggettivo, non un canone classico universalmente valido, eppure pur essendo soggettivo è un parametro al quale ognuno di noi deve sottostare. Fra un/a ragazzo/a bello/a e uno/a brutto/a, entrambi sconosciuti, al quale dobbiamo domandare un’informazione, verso quale dei/lle due saremmo tentati di avviarci?
E così Adrien/Rohmer è forzatamente obbligato ad approcciarsi alla bella e disponibile Haydée.
Sorprendentemente [ma solo a una visione superficiale] ciò che viene a mancare è il contatto fisico tra i due. L’estetica dunque perde la sua importanza? Come per tutte le altre ambivalenze che caratterizzano il pensiero qui espresso, si e no. Ciò che scuote l’animo dell’uomo è il pensiero di dover raggiungere una donna, non di raggiungerla. Come nelle Notti Bianche di Dostoevskij e nella Prospettiva Nevskij di Gogol è l’idealizzazione ciò che sprona l’uomo ad agire, ciò che stimola la riflessione sul e del sé. Afferrare l’obiettivo che come un fazzoletto viene sventolato davanti ai nostri occhi significherebbe interrompere immediatamente la ragione d’esistere in quella situazione, significherebbe troncare la situazione.
Per Rohmer non è soltanto una questione d’idealizzazione, ma di vera e propria sfida tesa alla maturazione del sé tramite l’esperienza. La donna/oggetto si rivelerà quindi dea/oggetto, detentrice dei piaceri e della dannazione dell’uomo.
L’indispensabilità del non-contatto fisico tra individui è una condizione necessaria per non far crollare il castello di carte sul quale temporaneamente il sé appoggia. Lungi dal vedere la Verità per ciò che è, la moralità si fonda qui sull’esperienza.
Dunque, è l’esperienza o l’ascesi a costituire la via per la salvezza morale dell’uomo?
Dubbio amletico ed annoso che affonda le sue radici nella filosofia greca che è stata sostanziosamente ripresa e [fortunatamente] trascritta dai monaci medievali attraverso i quali spunteranno fuori personaggi fondamentali per queste questioni filosofico-morali come Tommaso d’Aquino e Pietro Abelardo.
Eppure Rohmer non sembra volersi discostare troppo dal rifiuto/unione cosmico di Krishnamurti, tant’è che è lo stesso Adrien ad affermare “io non cerco niente”, a rimarcare quanto ogni azione compiuta sia un passo di allontanamento dalla Verità. Ogni azione dell’uomo è il frutto d’un pensiero d’arroganza che andrà a modificare ciò che era fino a quel momento.
La non ricerca di qualcosa non è però finalizzata all’esclusione dal mondo, piuttosto tende all’intima unione con esso. Non “agire per ottenere”, ma “ottenere e in base a ciò agire”. Non cercare arrogantemente qualcosa, ma confrontarsi con ciò che a noi viene. “L’importante non è pensare, è partecipare” intimamente, ribadisce Adrien.
Purtroppo le debolezze dell’uomo s’incastrano nelle fessure della coscienza e nel momento della presa di coscienza d’essere parte d’un teatrino societario, nel bene e nel male, si rischia di perdere la ragione. Senza contare che se dopo aver compreso ciò si è anche in grado di vedere il proprio ruolo come di defilata comparsa rispetto a chi davvero è protagonista societario, le probabilità d’impazzire aumentano a dismisura.
Anche attraverso a ciò passa Adrien, nel suo non agire.
Forse il dialogo più bello è in scena proprio quando il protagonista si confronta con il suo acquirente collezionista d’arte e dimostra la sua teoria del “ci vuole più coraggio a non lavorare che a lavorare” in virtù del fatto che il lavoro è qualcosa che non siamo in grado di mettere in discussione nella nostra vita. Per tutti noi è normale trovare un lavoro, ma questo cosa comporta? Comporta l’inserimento meccanico in un processo societario così come inscenò Lang nel suo celebre Metropolis del ’27. Una lunga catena di montaggio per la produzione di beni di assoluta non prima necessità, beni superflui che crediamo di volere e di necessitare. Chiamarsi fuori da tutto ciò è per Rohmer, coraggioso. Non agire, per agire contro una società del consumo e dello sfruttamento dell’uomo, che si ritrova così senza possibilità di dedicarsi al sé e a ciò che lo circonda, che è sempre parte del sé, e viceversa.
E tutto ciò lo si può desumere osservando un film nel quale nulla succede, oltretutto girato con una tecnica registica quasi improvvisata, in pieno stile nouvellevaguiano. Molte sono le scene in controluce, molte sono le inquadrature decentrate e il montaggio non segue minimamente quanto imposto dal découpage del cinema classico hollywoodiano. La suddivisione in capitoli del film è totalmente arbitraria e spiazzante. Il finale così improvvisamente troncato si conferma una delle migliori trovate dell’intera nouvelle vague, e ripropone quanto lo stesso Rohmer aveva già proposto nel primo dei racconti morali, il cortometraggio La Boulangère De Monceau. L’interpretazione degli attori è perfetta per l’occasione ma tutt’altro che accademica. L’immagine perde ogni sua importanza in favore della parola, grazie a una sceneggiatura tra le più forti che si siano mai viste al cinema, assieme a quelle di Bergman.
La Collezionista è un film adatto a pochi, non perché sia estremamente lento o pesante ma perché rischia di non essere compreso nella sua essenza. Per apprezzare questo film è necessario entrare in profonda empatia con quanto rappresentato, altrimenti si assisterà a un inutile susseguirsi di situazioni insignificanti.
Danilo Cardone
troppe fotografie.
però una brillantissima analisi su un capolavoro di film! 😉
Mi fa piacere trovare chi ha saputo apprezzare questa perla cinematografica.
L’analisi così fatta è intima. Anche per questo motivo trovo ulteriore compiacimento nel saperla condivisa.
Le fotografie creano loro stesse un percorso a sé stante che si integra con le parole. Accetto la tua critica e la terrò presente per il futuro.
Grazie, Pavlina.
Premetto che non conosco il film e anche in questo campo non sono un’esperta, ma certo che il racconto che hai fatto di questo film è molto interessante e mi pare che tratti molti degli argomenti di mio interesse quali il nostro ruolo in questa società e le nostre vere necessità….quanto ci lasciamo soggiogare da ciò che ci circonda perdendo di vista, secondo me, il vero senso della nostra esistenza.
Cercherò di vederlo.
E’ dunque un film per te. 🙂
Tenendo presente che non ha le caratteristiche classiche né di un lungometraggio né di un documentario.
Sono sicuro saprai apprezzarlo..
Bellissima recensione (non avevo dubbi…).. vorrei avere il tempo di risponderti con un lungo commento ma domattina la sveglia suona alle 5.30 e temo di dover, quindi, andare a letto.. ma ci tenevo a farti sapere che avevo accettato il tuo consiglio.. tornerò domani a raccontarti cosa ne penso… 😉
Non preoccuparti, sono qua per te.
Per ora grazie e buon riposo
Lo so.. sono in super ritardo.. ma cercherò di recuperare.. 😉
E’ stato un suggerimento quanto mai azzeccato.. questo film riprende molti dei temi che mi stanno a cuore e tu, nella tua recensione, li esponi davvero bene. Si percepisce dai tuoi scritti che devi avere una cultura non indifferente.. il che rende il tuo scrivere pieno di spunti.. e non credo che con un semplice commento riuscirò a sintetizzare tutto ciò che voglio dire ma ci proverò. 🙂
Dopo i complimenti.. passiamo al film.. 🙂
Posto che un film con una votazione così alta sia in ogni caso da vedere (già.. non l’ho visto..) sono particolarmente colpita dalla “trama” (anche se mi sembra di capire che non ce ne sia proprio una precisa..) e dal percorso verso la purificazione di Adrien ed anche dal “misoginismo” (non so se si dica realmente così).. di cui parli.. un argomento che avrebbe bisogno di approfondimenti.. 😉 Mi piace anche il fatto che in tutto questo intreccio vi siano riferimenti alla filosofia indiana.. Insomma.. è un film che mi piace (dalla recensione almeno..). Gli spunti sono veramente tanti… ma questi mi sono sembrati i principali..
Come sempre la scrittura è scorrevole.. i tuoi post hanno la particolarità di trascinare in un altro mondo nei minuti che si dedicano alla loro lettura.. ed il bello del tuo recensire film.. è che ogni volta porti i tuoi lettori in un mondo diverso.. 😉
Cosa ne pensi? 🙂
Penso che le tue parole siano molto belle e i tuoi complimenti più che gratificanti.
Per quanto riguarda il film, io ho fornito una mia lettura. Per esempio, nel film non ci sono mai accenni alla filosofia indiana, così come alla misoginia [però se vuoi lo chiamiamo misoginismo, sul vocabolario lo ammette come variante accettabile 😛 ] che traspare più come un conflitto dentro al protagonista stesso, che attraverso un odio esteso verso il genere femminile.
Perché ti hanno colpita proprio questi aspetti? t’interessi di misoginismo e filosofia indiana?
Mi interesso al misoginismo perché ho un amico che dalla descrizione sembra Adrien.. l'”odio” verso le donne che nasconde una profonda disistima di se stesso.. almeno io la vedo così. La filosofia indiana mi interessa perché da un lato per me simboleggia la libertà, un contatto più diretto e più amichevole con il mondo.. dall’altro voglio dimostrare che non è poi così differente dalla nostra (ma non so se ci riuscirò…) 😉
Una domanda che faccio a tutti.. e che non centra nulla se non per mia pura curiosità.. quanti anni mi daresti?
🙂
A presto.
La misoginia non sempre è disistima per sé stessi, credo. Prendi Nietzsche. disprezzava uomini e donne, ma non sé stesso. Zarathustra non disprezza sé, perché è al di sopra del sé.
Nel film di Rohmer, come anche in altri suoi, credo la misoginia sia profonda ammirazione per la donna, incrinata dal fatto che la donna spesso non si rivela all’altezza delle aspettative dell’uomo. In questo modo la donna mette in crisi l’uomo che, in teoria, dovrebbe odiarla per la crisi creata e amarla per lo stesso motivo.
Bello il fatto che tu voglia dimostrare l’incontro tra le filosofie. io sono anni che sostengo che Heidegger, lo stesso Nietzsche, Hermann Hesse e Krishanmurti dicano esattamente le stesse cose, ma quando lo dico a qualche studente di filosofia mi prende per eretico. bah.
Quanti anni hai? ahah
io credo tu sia giovane, sotto i 25 anni, ma molto preparata. sono sulla buona strada?