Le Vite Degli Altri – Florian Henckel von Donnersmarck [2006]
Der Film vom guten Menschen
Ambientato tra il 1984 e il 1989, Le Vite Degli Altri narra storie di passione e di censura nella Berlino Est sottomessa al rigido controllo della Stasi, l’organizzazione per la sicurezza e lo spionaggio.
Considerato da molti come uno dei massimi capolavori del cinema contemporaneo, questo film segna l’esordio registico di Florian Henckel von Donnersmarck il quale saprà rovinarsi con le proprie mani soltanto quattro anni dopo con la direzione di The Tourist.
I facili entusiasmi della critica e di un pubblico troppo male abituato a vedere prodotti e non opere cinematografiche, sono giustificati ma dovrebbero essere leggermente smorzati in occasioni come questa.
Il film è meraviglioso, non lo si può negare.
Scevro da picchi di ritmo, Le Vite Degli Altri calamita lo spettatore allo schermo grazie a una fotografia fredda ma sensuale, e soprattutto a una storia pervasa da passione profonda.
La rigidità formale della pellicola che a tratti riecheggia ancora il formalismo de-umanizzante di Fritz Lang, se inizialmente supporta l’automatica glacialità dell’azione dei personaggi saprà ben stridere con l’accalorata narrazione man mano che i minuti passano. E’ la consapevolezza dello spettatore di trovarsi in una situazione d’impossibilità d’agire al di fuori di quanto imposto da altri, ad essere rappresentata da questa regia fatta di meccanici e ripetitivi movimenti di macchina da presa così come dalle luci al neon che illuminano alcuni tipi di locale. Sono le spoglie pareti e le altisonanti divise militari a ricordarci di continuo di dover sottostare a regole che impongo censure.
Ciò che salva l’animo umano [e dello spettatore] è la passione che dentro avampa, per dirla con Petrarca, naturalmente insita nell’uomo e mai dissociabile da esso. È l’amore per ciò che riscalda l’animo umano a sciogliere anche il più freddo dei glaciali cuori. Ma, come ben si sa, non tutti sono in grado di ascoltare veramente qualcosa, di sentire a orecchie tappate, e così questa passione è una chiave massonica per individui dalla coscienza illuminata che antepongono la vita dell’Uomo a quella dell’uomo.
Ed è per questa ragione che riveste una così fondamentale importanza la partitura, splendida nella sua intensità, intitolata Die Sonate vom guten Menschen, la sonata per uomini buoni, vero leitmotiv della storia. Colonna sonora musicale che ammanta ogni cosa di poesia, più ancora di quanta ne trasudi l’intreccio.
È questo un thriller estremamente poetico. Una sceneggiatura più che apprezzabile promuove continuamente la libertà d’espressione, il diritto d’ogni uomo di scrivere, comporre, inscenare esattamente come a egli aggrada, lontano da egoistiche restrizioni imposte da enti pretenziosamente autodefinitisi superiori.
È questo dunque un film politico? Impossibile dire di no, ma è una politica dell’Uomo e non partigiana. È una politica che condanna le imposizioni interessate e che soffia energicamente nelle vele della libertà e del rispetto d’ogni espressione umana.
Ma accanto a ciò, dov’è posto il limite tra altruismo ed egoismo? Chi può decidere cosa è bene e cosa non lo è? Chi può arrogarsi il diritto di condurre un’intera società fuori da un’ingestibile anarchia?
Il personaggio principale interpretato da uno straordinario [e purtroppo compianto] Ulrich Mühe è l’emblema e il punto cardine di questa vicenda. È lui che deve decidere se agire o non agire, se salvare o condannare, prima ancora che gli altri, sé stesso. Per far ciò deve mettere ogni suo credo in discussione e divenir giudice obbligato delle vite degli altri, dovendo scegliere fra la vita propria e quella altrui, dovendo scegliere se una decisione personale può e deve influire sul corso degli eventi.
È questo un personaggio che nella forma si rifà molto da vicino al Gene Hackman posto in una simile scomoda posizione nel bellissimo La Conversazione di Francis Ford Coppola del ’74, malgrado nel film di von Donnersmarck l’atmosfere siano decisamente più rarefatte e spersonalizzate. Eppure i dubbi instillati nella mente e nella coscienza del protagonista sono in entrambi i casi frutto d’un’azione di spionaggio che attraversa il solo canale uditivo che preclude quindi la visione diretta degli avvenimenti. Così, come durante la lettura d’un buon libro, è la mente ad associare fatti e congetture, dovere e morale, donando alla mera realtà quell’aura poetica che soltanto l’immaginazione è capace di ricreare.
Ecco da dove deriva il lirismo del quale è intrisa quest’opera.
C’è però anche qualche elemento che s’avversa ad essa, smorzandone un po’ la sorprendente forza espressiva.
Innanzitutto non è questo un cinema d’innovazione, in alcun senso. Malgrado tutto sia magistralmente inscenato, tutto è già stato visto in molte altre occasioni, così come la storia è un meraviglioso thriller melodrammatico che non brilla per particolare originalità. Inoltre ogni cosa è palesata presto o tardi durante il film. Nulla è lasciato aperto all’immaginazione dello spettatore.
L’utilizzo dei ripetuti obiettivi ultra-grandangolari è ben evidenziato e funzionale, ma non raggiunge gli esasperati, ma davvero caratterizzanti, risvolti di un film come Fallen Angels del regista Wong Kar-Wai del 1995.
Le Vite Degli Altri non fa dunque parte di un cinema di trascendenza o di onirico estraniamento, ma di un poetico intrattenimento come raramente si era visto prima. Non sarà forse un capolavoro assoluto, ma la visione è vivamente consigliata.
Danilo Cardone
Grazie! Mi è piaciuta molto la tua analisi, soprattutto questa visione di un thriller poetico che chissà per quale strana associazione di idee mi ha portato a “L’uomo del treno” di Leconte.
A volte mi domando come riusciate, tu come altri studiosi di cinema, a guardare un film, a scomporlo nelle sue parti, ad andarci dentro, con quel rigoroso distacco..perché “Le vite degli altri” è davvero un poetico, toccante, commovente intrattenimento.
Grazie a te per le gentili parole utilizzate.. e per avermi definito “studioso di cinema”.
Non so cosa ci sia di particolare nel mio modo di vedere un film.. per me è la normalità. è tutto lì davanti agli occhi di tutti. e mi danno per tutto ciò che non riesco ad assaporare e a notare d’un’opera, nel caso, cinematografica.
ma lo stesso vale per la pittura, la scultura, la musica, l’architettura…
Film molto interessante L’Uomo Del Treno ! malgrado io abbia preferito La Ragazza Sul Ponte, sempre di Leconte. Forse è la ri-scoperta d’un legame aprioristicamente negato che crea in te il parallelismo tra i due film, che ne dici? Non lo so, in ogni caso mi piace..
E’ sempre più curioso e interessante il tuo modo di vedere le cose…e dico che probabilmente hai centrato in pieno la questione .-)))
C’è la sequenza meravigliosa in cui Dreyman suona il pezzo “Die Sonate vom guten Menschen” al piano e non sapendo di esser spiato dice: “Come può una persona che ascolta questa musica rimanere cattiva” (o qualcosa del genere… non facciamo i pignoli). Quello è il momento in cui in Ulrich Muhe avviene la definitiva metamorfosi e… bo… la considero una trovata di sceneggiatura meravigliosa. Instilla anche il dubbio che ci portiamo dietro dall’età della pietra: può l’arte cambiare il mondo? Forse…
E’ fantastico il momento che rilevi e come lo interpreti.
Se può l’arte cambiare il mondo? Mi piace ricordare la sacralità che André Breton affida ad ogni opera nella sua Arte Magica. Garantisce un rispetto atavico per ogni espressione umana, rendendola potenzialmente infinita. Da questa, ogni coscienza potrebbe essere mutata…
E ogni coscienza, comunque, muta…
“Penso a ciò che ha detto Lenin sull’Appassionata di Beethoven: “Non devo ascoltarla o non terminerò la rivoluzione”. Ma come fa chi ha ascoltato questa musica, ma veramente ascoltato, a rimanere cattivo?”.
Dio, bellissimo.
Bella review. (:
Grazie per la splendida citazione…
come sempre apporti qualcosa d’interessante con i tuoi commenti.. 😉