Carnage – Roman Polanski [2011]
La media azione
Presentato alla 68esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Carnage è il 19° lungometraggio del pluritormentato regista polacco d’adozione francese, Roman Polanski.
Interamente girato [tranne la prima e l’ultima scena] all’interno di un appartamento newyorkese nella trama ma parigino di fatto, narra le [non] vicende di due coppie che s’incontrano con il più o meno civile intento di discutere riguardo all’aggressione del figlio di una nei confronti del figlio dell’altra.
Tutto qui. Non c’è altro.
Eppure è un film densissimo. Come già consuetudine per Bergman, i fittissimi e incessanti dialoghi fra i personaggi sono tanto pregni quanto vuoti, vacui, profondi e al contempo superficiali, importanti e allo stesso tempo inutili.
La sceneggiatura scritta da Roman Polanski assieme a Yasmine Reza, ovvero l’autrice della pièce teatrale dalla quale il film è tratto, è di livello stellare. Un capolavoro di battute e controbattute costanti e inarrestabili che vanno dal grottesco all’esasperato, in grado di reggere solidamente l’intera ora e venti del film senza mai stancare o essere troppo ripetitiva. L’inutilità del dialogo in quanto forma verbale aleatoria, chiave passepartout che permette agli esseri umani d’intrattenersi con questioni più o meno serie tra di loro, è in questo caso di estrema efficacia nel rappresentare l’inusitata arzigogolatura dei meccanicismi del pensiero umano. Pensieri che si sommano ad altri pensieri, che contrastano con i propri precedenti pensieri, al solo fine di dominare il pensiero del prossimo. Un’assurdità, a parole, per l’appunto, ma è la consuetudine per l’uomo all’interno della nostra società al giorno d’oggi.
Uno degli aspetti geniali di quest’opera di Polanski risiede proprio qui, nel saper palesare allo spettatore la ridicolezza della mente e dell’ego dell’essere umano, senza che l’individuo in causa se ne possa accorgere. Per lo spettatore è più che ovvio il grottesco carattere infantile che assumono le discussioni da un certo momento in avanti, ma per i personaggi coinvolti ogni parola è più importante della precedente, e quella dopo ancora lo sarà ancora di più fino ad arrivare ad astrarsi totalmente dal problema iniziale delle discussioni, finendo quindi per perdersi dentro agl’inconfessati intimismi accuratamente celati dal velo societario di facciata fino a pochi istanti prima. La discussione esasperata dunque, come un mantra per ritrovare sé stessi, per riconciliare il proprio io con l’io atavico dell’esser-ci heideggeriano. Essere nello spazio e nel tempo, essendo ciò che si è e non conseguenza del fluire [apparentemente] controllato della vita. E non per niente uno dei quattro personaggi in causa è un paladino dei diritti umani per quanto concerna la questione africana del Darfur [ed ecco l’aggancio con il primitivismo nel quale l’Africa è la vera culla dell’umanità], salvo poi essere il difensore più assiduo dei caratteri fittiziamente modellati della società contemporanea occidentale. Questo personaggio è il figlio fallito dell’american dream, con ancora il fumo negli occhi degli sponsor della coca cola e assieme dell’unicef.
Nella storia ogni personaggio da un inizio pacato e costellato da formalità di circostanza arriverà a spogliare sé stesso della maschera societaria, svestendo le parti del ruolo che crede di essersi modellato per mostrare la sua parte più instabile e allo stesso tempo selvaggia, dove la forma non ha più alcun valore e l’anarchia potrà anche essere meno morale della democrazia ma sicuramente risulterà più soddisfacente.
La mediazione è la risposta per potersi rapportare con il prossimo. Ma che senso ha limitarsi di continuo? Per compiacere a chi? E perché dover compiacere a qualcuno?
Ecco dunque che affiora la necessità recondita nell’uomo di mostrare il suo vero io.
Ma, ancora, che senso ha mostrare un ipotetico “vero io”?
E qui entra in scena il Polanski regista dalle straordinarie capacità tecniche. Dopo i funambolismi ai quali eravamo abituati negli anni d’oro del regista in film come Per Favore Non Mordermi Sul Collo e L’Inquilino Del Terzo Piano, Polanski sembra essere approdato a una stabilità registica apparentemente fin troppo pacata. In realtà i lievi movimenti di macchina onnipresenti ma quasi mai percepiti e una fotografia perfetta [tanto nella luce quante nelle inquadrature] sono solo una parte della sua regia. La rarefazione dei tecnicismi trova la sua spiegazione con le due divagazioni registiche più evidenti, ovvero la prima e l’ultima scena. Entrambe ambientate all’aperto in un giardino, mostrano il normale e quotidiano defluire degli eventi della vita umana in quello scorcio di pianeta. Nulla accade di veramente sconvolgente malgrado la prima scena sia il pretesto per l’intera storia, e nulla non accade. Tutto è lì e va esattamente come deve andare.
Michael Haneke, Niente Da Nascondere. Ecco il più vicino esempio di questo tipo di regia che possiamo trovare nel cinema contemporaneo e, guarda a caso, è un esempio di cinema europeo, ben lontano da Hollywood. E andando ancora più indietro è la mutevole staticità del cinema di Eric Rohmer a fare da faro per questo tipo di cinema.
Polanski sembra essere ben consapevole di tutto ciò e tanto per non sembrare ripetitivo o copione, richiama temi a lui cari, oltre a un intellettualismo di fondo che recentemente abbiamo visto più volte usare dall’ormai europeizzato Woody Allen. Citare dipinti e indossare maglioncini da intellettualoide per darsi un tono e amplificare quelle poche conoscenze delle quali si è fieri detentori.
Ma il buon vecchio Roman il suo stile ce l’ha eccome e la repulsione che un tempo affliggeva una giovane e bellissima Catherine Deneuve pare oggi attanagliare i nuovi quattro possessori del senso civico e morale onnisciente e presuntuosamente obiettivo che è caratteristica della maggior parte degli individui della nostra società.
Così come i problemi di personalità del Polanski regista e protagonista che andò ad affittare uno sfortunato appartamento parigino al terzo piano di uno stabile d’epoca incidevano irrevocabilmente nell’animo e nella coscienza del protagonista, altrettanto paiono oggi disturbare attraverso altre vie gli instabili individui della nuova società occidentale, i quali possono stare in piedi e reggersi il gioco a vicenda esclusivamente fingendo e accettando le finzioni altrui.
E infine la ricorrenza di claustrofobici spazi nel cinema polanskiano. In Cul Del Sac del ’66 era la roccaforte medievale, in Per Favore Non Mordermi Sul Collo il tenebroso castello di un vampiresco conte defunto, poi il già citato appartamento de L’Inquilino Del Terzo Piano, aggiungendo alla lista anche il cospirazionistico condominio di Rosemary’s Baby e la più recente casa dove Sigourney Weaver e Ben Kingsley si sfidavano senza esclusione di colpi psicologici nell’opprimente La Morte E La Fanciulla del ’94. Carnage non sfugge a questa consuetudine, anzi si pone come apice di questa lista, lasciando che le vicende dei protagonisti fluiscano follemente all’interno delle quattro mura della casa di una delle due coppie.
Coppie che minuto dopo minuto scoprono sempre più la loro stessa natura come duplice e singola unità, grazie a un’ironia di pregevole finezza, capace di accompagnare tutto il film dall’inizio alla fine alleggerendo la visione per lo spettatore, e grazie a scontri al vetriolo fra tutti e quattro i protagonisti con uno schema a chiasmo incrociato dove ora il personaggio A accusa C, ora accusa D, poco dopo si accanisce contro B che è il/la suo/a consorte, passando e ripassando a schierarsi ora con uno, ora con un altro e adesso con nessuno e infine esplodere contro il mondo intero.
D’altronde questo sistema imperniato su apparenti contrapposizioni antitetiche e non soggette a convivenza sta proprio al centro delle intenzioni del regista, tanto che è proprio una delle due protagoniste che sfogliando imbarazzata le pagine di una esaustiva monografia dedicata al pittore Francis Bacon, definisce l’arte del pittore come “un insieme di crudeltà e splendore, caos ed equilibrio”. E nessuna definizione è più calzante né per l’arte sfuggevole e geniale di Bacon né per quest’opera per certi aspetti manieristica di Polanski.
Questa dinamicità dell’essere non è però soltanto fortemente dichiarata ma anche rispettata nella messinscena sia dalla parte del regista sia dalla parte recitativa.
I quattro attori sono tutti e quattro strepitosi. Kate Winslet è meravigliosa nel muoversi negli spazi come ha già ampiamente dimostrato in passato, mentre Jodie Foster malgrado risulti come di consueto un po’ troppo rigida è consona all’isterico ruolo che le viene assegnato. Il John C. Reilly che per l’occasione è il marito della Foster assume finalmente le parti di un carattere principale all’interno di un lungometraggio e lo fa con fare quasi alla Ken Loach [soprattutto nella seconda metà] che non dispiace affatto, ma la vera punta di diamante è Christoph Waltz che dopo aver nazisteggiato un [bel] po’ contro i bastardi senza gloria creati da Tarantino nel 2009 s’immedesima nel ruolo di altrettanto inglorioso avvocato perennemente attaccato al suo telefono cellulare e ai suoi spietati ideali post adolescenziali che hanno come punto riferimento l’autarchico imporsi dell’icona western John Wayne.
Accanto a ciò, cioè alla finzione dei rapporti umani tutti votati al possesso e al dominio, Carnage offre una visione estremamente intima e autoreferenziale del regista stesso. Come quasi tutti sanno, Roman Polanski fu accusato nel 1977 di aver abusato di una ragazzina di tredici anni durante una festa privata in quel di Los Angeles. Anni e anni di processo hanno portato all’esilio extra-statunitense del regista e in tempi più recenti a un periodo di reclusione nelle carceri svizzere [che poi diventarono arresti domiciliari]. Malgrado ciò la presunta vittima ritirò la denuncia contro il regista e la versione raccontata da Polanski stesso racconta di una volontarietà della ragazzina all’atto sessuale, agevolata dall’assunzione di alcuni tipi di sostanze stupefacenti molto in voga nel jet-set post-sessantottino.
A fronte di ciò Carnage, a 34 anni di distanza dal fatto, si pone come un brevissimo riassunto [cinico?] dell’accaduto. Se infatti l’iniziale atto di violenza del ragazzino nei confronti di un suo coetaneo potrebbe risolversi come un [troppo] violento e acceso ma naturale avvenimento dell’adolescenza dalla quale tutti siamo passati, si dimostra invece soltanto l’input che scatena la carneficina psicologica dei genitori reclusi nell’appartamento. Quattro persone che non hanno partecipato né osservato l’accaduto, si azzuffano fino all’estremo con il solo unico fine di far prevalere il proprio pensiero critico sul pensiero critico altrui. Anche questo pare impensabile ma non è altro che una rapida estremizzazione dei rapporti societari contemporanei. Alla fine del film [non vi sto svelando la conclusione di una trama che di fatto non esiste] una nuova inquadratura sul parco, fissa e in piano sequenza testimonia il naturale fluire della vita.
Così è anche per lo stesso Polanski. Accusato per un avvenimento poi smentito dalla stessa vittima, il fatto ha dato il via ad anni e anni di accessi dibattiti dentro e fuori dai tribunali per quella che sarebbe potuta passare come un consenziente atto di sesso tra due individui. Ma come l’ultima immagine sul parco dimostra, che utilità ha rinchiudersi in quattro mura a discutere di qualcosa al quale nemmeno abbiamo presenziato?
Attenzione, non sto giustificando o assolvendo, ma riportando il pensiero polanskiano che emerge sotto la superfice dell’opera.
Carnage è dunque un film particolare, simpatico e profondo, superficiale e noioso, che non accontenterà gli amanti dell’azione né dei film romantici, ma che farà sicuramente la felicità degli amanti di un cinema che sa andare oltre la semplice narrazione dei fatti, appoggiandosi su solide basi filosofiche e su una regia al giorno d’oggi raramente rintracciabile nelle opere di altri registi.
Danilo Cardone
Gran bel pezzo! Profondo, arguto, argomentato.
Venendo al film, a me è piaciuto molto. Sagace, pungente, viscido, spassoso. Come scrivo anche sul mio blog, la prova dei 4 attori è favolosa, ma salta troppo all’occhio la performance di Waltz che dopo “Bastardi senza gloria” si dimostra un attore a dir poco sublime! 😀
Film geniale, come l’analisi fatta quì d’altronde! 😉
Ringraziamo. io e Roman.
Appena visto. L’ho trovato così.. Claustrofobico.
Non mi ha del tutto convinta. Però, per brevità, densità e stile lo trovo un gioiellino.
…”Questo personaggio è il figlio fallito dell’american dream, con ancora il fumo negli occhi degli sponsor della coca cola e assieme dell’unicef”: ah, questa mi piace proprio.
Sono molto felice tu abbia voluto condividere il tuo pensiero su questo film in questo spazio. 🙂
Claustrofobico è una definizione davvero calzante per quest’opera. D’altronde uno degli intenti di Polanski tramite questo film è proprio evidenziare l’assurdità di tale claustrofobia societaria, nella quale l’uno vuole sempre e comunque prevalare sull’altro.
E’ vero, trovarselo così di fronte può infastidire, dare noia.
Ma proprio per questo apprezziamo. Ogni turba della mente aiuta a mutare leggermente il proprio punto di vista sulle cose, agevolando una totale visione di ciò che è per ciò che è.
forse.
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