Dead Man – Jim Jarmusch [1995]
Riposo durante la fuga con delitto
Nell’elenco dei film più stravaganti degli ultimi 20 anni, Dead Man è un titolo che non può mancare.
Jim Jarmusch, che qualche tendenza delirante l’ha sempre dimostrata, firma nel ’95 questo pseudo-western dal [neanche tanto](retro)gusto marcatamente tetro e opprimente, ben lontano dal Jarmusch del giustiziere nero Ghost Dog e ancor di più dall’ironico e amaro Broken Flowers.
Dead Man è un insieme di episodi temporalmente sequenziali atti a formare l’unica vicenda interiore del protagonista.
In altre parole, storia ce n’è ben poca e il film scorre molto lento. Ma scorre, lento ed inesorabile, proprio come il fiume metafora del passaggio da una condizione materiale e spirituale a un’altra.
Tutto perfetto, quindi? Finalmente un nuovo modo di fare cinema? Si e no.
Sicuramente film come questo, non se ne vedono in giro. E’ unico. Ma non per questo un capolavoro.
La scelta di girare il lungometraggio in bianco e nero è già alquanto insolita per un genere come il western. Quanti film di questo tipo vi vengono in mente che non siano a colori? Ben pochi, ve lo dico io, perché sono quasi inesistenti.
Jarmusch si pone già quindi sul piano dell’insolito a livello estetico. Così, anche il montaggio è tutt’altro che consueto. Forse talvolta impreciso, ma sicuramente evocativo, al contempo sincopato e rarefatto.
C’è poi la questione del genere. E’ questo un western? La risposta è fortunatamente altrove, ponendo una volta di più [e quanto ce n’è bisogno!] l’accento sul fatto che la categorizzazione dell’espressioni umane è un puro capriccio, vero esercizio di stile per il critico. Questo film è un western, non essendolo. A dir la verità è molte cose, ma le svia tutte, e quindi è davvero inutile stare a elencarle.
Il vero problema di Jarmusch è la sua natura ibrida, che riversa tutta in questo suo personale film che vive in costante bilico tra un’ironia superficiale e non troppo arguta e una profondità castanediana mai approfondita nella realtà filmica.
Tolti i primi minuti dell’inizio che trascinano tutta la nostra attenzione sulla sola bidimensionalità dell’immagine, la prima parte risulta più godibile per una fetta più vasta di spettatori, ma al contempo risulta scarna, con molte idee e personaggi abbozzati e mai messi a fuoco all’interno della storia. L’ironia qui dispensata è di basso livello, mai tagliente come sarà in Broken Flowers. Le gag fra i personaggi sono insipide, mal assortite.
La seconda parte del film è invece quella cinematograficamente più interessante con il suo costante diradarsi della parola e un sopravvento totale nel finale della sola immagine.
Purtroppo anche quando il protagonista inizia il suo percorso spirituale lo spettatore rischia di rimanere troppo poco coinvolto nella [sue] vicende interiori. Chi di voi ha letto qualcosa di Carlos Castaneda, per esempio, sa benissimo che non basta citare la parola “peyote” a metà del film per fare dell’esperienza del protagonista un passaggio mistico a nuova coscienza.
Jarmusch pare invece intenzionato tramite una forma insolita cinematografica a renderci partecipi di un cambiamento del quale vorremmo davvero essere parte, ma che una volta afferrata la nostra mano, la lascia scivolare senza possibilità di recuperare la presa, se non repentinamente in un finale d’estremo impatto visivo ma, purtroppo ancora una volta, troppo distante dal nostro intimo sé.
Citando e non approfondendo le piccole parti interpretate da vari attori famosi come Robert Mitchum, John Hurt, Crispin Glover, Billy Bob Thornton, Alfred Molina e persino il cantante Iggy Pop, il vero punto focale a livello d’immagine dell’intera opera è Johnny Depp, nella parte dello sprovveduto contabile protagonista della vicende, tra cui quella di essere scambiato per l’anima del poeta e pittore William Blake per un caso di omonimia.
Depp è straordinariamente perfetto nel mostrare i segni del passaggio dalll’ingenuità alla tetra e cupa accettazione dell’incombere della fine. La sua a tratti soporifera cera, complici dei costumi azzeccatissimi, è un vero punto di forza che mantiene lo spettatore in uno stato catatonico, quasi ipnotizzato da quegli occhi un po’ fusi un po’ spaesati e quel sorriso così enigmatico.
Enigma e ipnosi che, ed ecco l’altro punto di forza, forse il principale, convogliano totalmente nelle strabilianti musiche ossessive create appositamente dal grande Neil Young. Come Miles Davis fece per Ascensore Per Il Patibolo di Louis Malle nel ’58, musiche create su improvvisazioni nate durante la visione del film. Ma più che essere paragonabili alle atmosfere noir create da Davis, Young pare più un Ry Cooder di Paris, Texas di Wim Wenders in versione elettrificata e totalmente distorta. Poche note, distanti fra loro a definire paesaggi astratti, che non accolgono altro che le percezioni del[lo spettatore] protagonista. E’ la sua musica a condurre la nostra mente altrove, a ipnotizzarci e a rapirci. E’ il suo ritmo incessante, ossessivo e paranoico più di ogni altra immagine a incuterci un senso di evanescente precarietà.
Dead Man è un film ai limiti fra cinema sperimentale ed esperienziale, ma non per questo è un’opera riuscita sotto tutti gli aspetti. Malgrado ciò molti lo troveranno straordinario, magari per il solo fatto di non essere prodotto consueto e garantendo al contempo molti importanti spunti.
Ma ciò che rimane dentro di noi non saranno né la violenza né l’acido bianco e nero utilizzato. In noi c’è solo un Johnny Depp con un cappello in testa, una pelliccia sulle spalle, una pistola in mano e qualche segno sul volto, sdraiato sulla prua di una canoa senza canottiere, mentre la distorta chitarra di Neil Young invoca spiriti che parola e mente non sono in grado di raggiungere…
Danilo Cardone
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