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The Elephant Man – David Lynch [1980]

4 luglio 2011

De forma. Trattato sul giudizio e sulla dignità

The Elephant Man

Secondo lungometraggio della fortunata filmografia del singolare regista David Lynch, The Elephant Man racconta la vera storia di Joseph [John, nel film] Merrick, ovvero l’uomo estremamente deforme che incuriosì la società britannica in età vittoriana.

Lynch, personaggio stravagante che ama portare sul grande schermo storie altrettanto insolite, sembra quasi prendere per mano l’orribile protagonista per farlo recitare nel suo film. Pare ri-indossare i panni che furono del dottor Treves per salvare John Merrick dalla derisione e dall’oblio, fornendogli fama e affetto postumi.

E non si può dire che non ci sia riuscito.

Complice un bianco e nero di rara fattura, lo spettatore si ritrova immerso nella Londra della seconda metà del 1800 quasi senza che se ne accorga. La ricostruzione degli ambienti è curatissima e l’atmosfera di città industriale pre-novecentesca è palpabile in ogni scena.

Rapiti dall’immagine, ne entriamo a far parte prima da osservatori diffidenti della situazione, dell’attrazione, del mostro! Poi co-protagonisti nel ruolo di intimi amici e consolatori dello sfortunato essere del quale stiamo seguendo le vicende.

Le deformazioni fuori da qualsiasi definizione di normalità del quale il povero Merrick è afflitto lo rendono unico, irripetibile, e per questo colpisce la nostra sensibilità. La sua intelligenza e la sua predilezione per la poesia e le arti dimostrano come qualsiasi pregiudizio nei suoi confronti sarebbe non solo infondato, ma persino dannoso.

E così è.

The Elephant Man

Aldilà della mera narrazione dei fatti la storia di John Merrick può essere letta come la storia di ognuno di noi all’interno della società, divenendo la personale storia di un qualunque escluso per via del superficiale aspetto esteriore. La banalità che sfrutta l’unione e non il significato, della quale si fa forza la massa è ciò che uccide il singolo individuo. È l’ignoranza della non conoscenza a dettare il comportamento egoistico della comunità che si autodefinisce normale, non permettendo a ciò che non si conosce di entrare a farvi parte per non rischiare che sconvolga la società stessa alla base, con possibile ribaltamento del ruolo all’interno della società.

In realtà John Merrick, chiamato L’Uomo Elefante nei freak show, gli spettacoli di bizzarrie e anomalie della natura nei circhi, non venne totalmente escluso dalla società ed ebbe persino un momento di fortuna presso l’alta aristocrazia britannica dell’epoca. Per merito del dottor Treves riuscì a conquistare un’attenzione non totalmente negativa, garantendosi così una vita lontana dagli stenti che lo attanagliavano quando lavorava nei circhi.

Il grande merito di questo film è di riuscire a portare l’attenzione dello spettatore su qualcosa di diverso, inusuale, che altrimenti non ci soffermeremmo nemmeno un minuto ad osservare, se non con stupore e disgusto. E guardando il film prendiamo confidenza con il “diverso”, arrivando persino a sostenerlo emotivamente. Non dovrebbe apparire come strano, ma è proprio il nostro identificarci, consapevolmente o meno, con il personaggio che dovrebbe farci maggiormente riflettere.

Ognuno di noi in una situazione di novità non sa come comportarsi e se quella situazione per noi sconosciuta è per altri individui già divenuta routine, finiremo inevitabilmente per fare la fine del John Merrick della situazione. Così come se noi facessimo parte di quella comunità di persone che conosce già come affrontare la situazione, non tarderemmo a rifiutare il nuovo arrivato, comportandoci come arroganti snob. Chiameremmo il nuovo “bestia” senza renderci conto di essere noi stessi a comportarci in maniera assolutamente dis-umana, in favore della protezione dello status apparentemente raggiunto dal nostro ego agli occhi degli altri individui della nostra stessa comunità.

The Elephant Man

E’ molto significativa una frase che Joseph Merrick gridò dalla disperazione quando una inferocita folla di inglesi stava inseguendolo all’interno di una stazione dei treni: « Io non sono un elefante, non sono un animale! Sono un essere umano, un… uomo! », ma d’altronde lui stesso sapeva benissimo, come ebbe occasione di rimarcare, che: « Gli uomini hanno paura di ciò che non capiscono. ».

Parallelamente il film di Lynch affronta la parte psicologica del medico che diede cure e affetto a Merrick. Salvandolo dalla strada e esponendolo ai membri dell’alta società culturale e scientifica, non stava facendo né più né meno di quanto accadeva negli spettacoli circensi? Ecco cosa danna l’animo del dottore.

Cosa e quanto si fa per gli altri in totale altruismo, e cosa e quanto si fa esclusivamente per noi stessi?

Dilemma filosofico dai mille risvolti e dalle mille possibili risposte che il regista ha il merito di evidenziare durante la durata del film creando vari livelli di partecipazione emotiva e psicologica per lo spettatore.

The Elephant Man

Quale occasione più ghiotta di rappresentare la storia vera di un personaggio così sfortunato, per banalizzare il tutto? Lo sforzo poteva essere minimo per toccare l’animo dello spettatore, e invece David Lynch dà prova d’essere regista di grande talento con quest’opera tanto forte quanto unica nel uso genere.

La sua bravura è dimostrata già nei primi minuti con quella ricostruzione così fedele e convincente della Londra tardottocentesca, nella quale le prospettive allargano la nostra visuale come nei migliori fondali di scenografie teatrali.

E poi, come non notare la maestria con la quale con saggio utilizzo del fuori campo, vieta allo spettatore la visione del “mostro” fino alla mezz’ora del film?

Lode anche agli attori, tra i quali spiccano ovviamente un giovane Anthony Hopkins nei panni del dottor Treves e un irriconoscibile John Hurt celato sotto il pesante trucco necessario per la parte di John Merrick.

The Elephant Man

The Elephant Man è quindi un film intimo, che troppo superficialmente è stato quasi sempre categorizzato come horror. I richiami di circostanza con l’impressionante Freaks di Tod Browning che sconvolse l’ingenuo pubblico del cinematografo nel 1932 sono doverosi ma, a mio avviso non indispensabili, perché David Lynch è stato talmente bravo da creare un suo personalissimo film cult.

8

Danilo Cardone

One Comment leave one →
  1. 4 luglio 2011 18:14

    Bellissimo film… l’ho rivisto con piacere qualche mese fa in tardissima serata (e mi chiedo il perché un film del genere venga trasmesso dopo le 23!).
    Non ti nascondo che mi emoziono sempre. Fino alle lacrime.
    Bella anche la tua recensione che condivido pienamente.
    Un saluto,
    Pau

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