Il Ragazzo Con La Bicicletta – Jean-Pierre e Luc Dardenne [2011]
Le 400 pedalate
Presentato quest’anno al Festival di Cannes dove ha conquistato il Grand Prix della giuria, Il Ragazzo Con La Bicicletta è un film dal sapore retrò.
Affondando sinteticamente le radici nel genere del romanzo di formazione, questo film ha dalla sua una messinscena cinematograficamente molto valida che si pone a metà strada tra i tecnicismi della nouvelle vague francese degli anni ’60 e la comunicazione epurata da inutili virtuosismi fittiziamente narrativi introdotta dal cinema neorealista italiano di fine anni ’40.
La storia è quella di un bambino che “depositato” in un centro d’accoglienza per l’infanzia si mette alla ricerca del padre e di sé stesso aiutato da una generosa parrucchiera che sceglie di sostenerlo nelle sue imprese.
Ecco quindi che il bambino emerge come il centro nevralgico della narrazione attorno al quale ruotano gli altri personaggi e le vicende. È lui quello che la macchina da presa segue, è lui quello che i registi cercano di definire. Tutto il resto è ambiente nel quale il bambino si muove e fa le sue esperienze.
Paragonato più volte dalla stampa italiana a una specie di nuovo Pinocchio contemporaneo, il protagonista vive giorno dopo giorno attuando un processo di maturazione del sé che passa tanto attraverso i traumi psicologici quanto per quelli fisici, subiti e inflitti.
La sua necessità “ambientale” di travalicare lo stadio dell’infanzia è vista come un’esigenza vitale, indispensabile per la sopravvivenza. E’ tutto utile alla sua maturazione.
Può sembrare qualcosa di già visto [e infatti così è] però i fratelli Dardenne sanno come trattarlo a livello cinematografico.
La macchina a mano traballante è sintomo di presa dal vero, di documentazione dell’accaduto e non a caso i registi sono, in primis, documentaristi. Il montaggio è intelligente in quanto alterna piani sequenza mediamente lunghi a momenti decisamente più sincopati, segno che dimostra l’aver imparato la lezione godardiana in questo campo.
Oltre a Godard, e forse ancor di più, l’attaccamento formale alla nouvelle vague è palesato in altri rilevanti punti come il tema trattato e i movimenti di macchina.
Il bambino che esperisce nel bene e nel male fra le strade della sua città non può non richiamare alla mente il capolavoro I 400 Colpi del 1959, opera alquanto innovativa del geniale François Truffaut. I punti di contatto risiedono soprattutto nella seconda parte del film dei Dardenne, mentre nella prima l’attenzione dei due registi belgi si biforca fra il trauma psicologico del bambino e la ricerca che il giovane protagonista intraprende per [ri]trovare il padre finendo poi per essere più di tutto investigatore del sé.
Molte sono le panoramiche e le carrellate effettuate con la macchina da presa per seguire il girovagare del ragazzino a bordo della sua bicicletta, e sono proprie le seconde a ricollegarci con I 400 Colpi per merito di quella magistrale carrellata finale che accompagnava la libera corsa del protagonista fino alla spiaggia con relativa ultima scena con spiazzante sguardo in macchina.
L’aggancio ideale al neorealismo avviene invece grazie alla “crudezza” del racconto del lungometraggio in esame. Nulla è censurato allo spettatore, e le [dis]avventure del protagonista si ricollegano direttamente a un quel cinema italiano fatto di esperienze dirette e dei drammi derivanti da esse. Lo sguardo dello spettatore è impotente di fronte alla palesata ma rinnegata infantilità del bambino, e gli accadimenti scorrono uno dopo l’altro con un realismo tale da far trasalire gli spettatori in sala quando viene mostrata la caduta del protagonista dai rami di un albero.
Il film scivola via senza difficoltà, agevolato da un’ottima interpretazione sia del piccolo Thomas Doret che della ben più affermata Cécile De France.
Malgrado l’apparente semplicità interpretativa dell’opera, a mio avviso c’è un aspetto che vale la pena d’esser segnalato ed è relativo alla maleducazione del bambino. Sofferente per la mancanza d’una famiglia e per l’abbandono del padre, il piccolo sviluppa un’avversione per il prossimo che si mostra per mezzo d’una mancanza di rispetto cosmica nei confronti di chiunque abbia a che fare con lui.
Questa assenza dei principi fondamentali d’un buon [con]vivere societario non credo sia totalmente slegata dal minimalismo comunicativo che ha contraddistinto la maggior parte della poetica del regista francese Robert Bresson. E’ evidente in opere come L’Argent del 1983, dove all’inizio del film sono proprio degli agiati ragazzini a omettere saluti e ringraziamenti superflui alla sopravvivenza dell’uomo.
Ne Il Ragazzo Con La Bicicletta quest’assenza è sintomo sì di carenza d’insegnamenti, ma anche di non necessità di espletare tali funzioni di rito al fine di asservire il desiderio di riconquistare il padre. In altre parole, è evidenziato in entrambi i casi l’istintivo impulso inconscio dell’ego di escludere dalle azioni dell’uomo quei convenevoli che non sono altro che creazione della mente umana.
Il Ragazzo Con La Bicicletta è quindi un film consapevole d’essere vera e propria opera cinematografica, malgrado nel corso dei suoi 87 minuti non riesca mai a toccare nel profondo dello spettatore.
Danilo Cardone
E’ anche interessante notare come il bambino si abbandoni a “convenevoli” solo col padre (il bacio di saluto), cosa che il padre invece fa con sforzo immane. Le manifestazioni d’affetto rivolte solo al padre si spostano poi verso la parrucchiera quando il bimbo diventa in grado di comprendere chi gli voglia bene sul serio o, similmente, chi abbia realmente intenzione di prendersi cura di lui.
Interpretato con il classico schema cinematografico da “romanzo” che lo spettatore di solito adotta, secondo me l’opera non rende affatto e delude parecchio. L’importante è rendersi conto (come io ho fatto dopo un’opportuna imbeccata una volta uscito dal cinema) come non si tratti di un’opera “normale”, ma per comprenderla c’è bisogno di slegarsi dai soliti schemi interpretativi e accettare il film così com’è, senza alcun tipo di aspettativa.
Secondo te l’opera delude? Beh, ma se delude significa che avevi un’aspettativa! =P
Effettivamente si, non bisogna cercare di forzare i personaggi sullo schermo a fare qualcosa che noi vorremmo facessero. Ogni cosa viene e va. E’ inutile cercare di controllare tutto. Lo comprende anche il protagonista nell’ultima scena..
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E infatti il problema è proprio che io avevo aspettative! Per fortuna me ne sono reso conto, anche se ho avuto bisogno di un’altra persona, e ho compreso il film decisamente meglio…
Io dei Dardenne ho visto “L’enfant” e ti dirò, non mi è dispiaciuto affatto…
Ah, sì, scusa… mi presento. ^_^ Mi chiamo Alessandra e sono passata essenzialmente per ringraziarti per ciò che hai scritto dalle mie parti, qualche giorno fa. Davvero, mi ha fatto piacere.
E poi ho visto che questo è un blog che tratta di cinema, la mia passione! Qualcosa mi dice che ci tornerò spesso…
Alessandra! Hai il nome più bello del mondo ! oltre a un ottimo blog.. 🙂
Sarai sempre la benvenuta..
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